La vicenda tratta della conferma giudiziale del licenziamento irrogato per assenze del lavoratore che superano il periodo di comporto.
La Corte di Milano ha confermato il primo grado respingendo l’impugnativa del licenziamento intimato al lavoratore il 10 aprile 2020 per superamento del periodo di comporto per essere rimasto assente per malattia per 391 giorni, da considerare continuativi perché intervallati da periodi di ripresa del servizio inferiori a 30 giorni (come da CCNL).
Nello specifico, i Giudici di appello hanno ritenuto non detraibile dal computo rilevante ai fini del comporto il periodo dal 10 novembre 2017 fino al 2 gennaio 2018, in cui il lavoratore era stato assente a causa di un infortunio in itinere, formalmente riconosciuto dall’INAIL. I Giudici interpretano l’art. 50, comma VI, CCNL, escludendo i giorni di assenza dovuti ad infortunio dal computo del comporto per sommatoria, in ragione dell’espresso riferimento fatto dall’art. 50, all’art. 41, comma II, che disciplina, appunto, il comporto per sommatoria.
Il ricorso in Cassazione
La questione finisce in Cassazione per la corretta “interpretazione” delle due norme del CCNL sopra menzionate, non avvenuta, secondo il lavoratore.
Difatti viene censurata l’interpretazione dell’art. 50 perché non avrebbe tenuto conto del primo comma del medesimo articolo che sancisce, in via generale, il diritto alla conservazione del posto per i lavoratori non in prova in caso di infortuni o malattie professionali.
La doglianza è corretta (Cassazione civile, sez. lav., 30/07/2024, n.21242).
Gli Ermellini ribadiscono che il recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da malattia del lavoratore è soggetto alle regole dell’art. 2110 c.c., che prevalgono per la loro specialità.
Conseguentemente, considerata la specialità della norma codicistica, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.
Assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale
Ergo, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, essendo riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto; mentre affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.
Detto in altri termini, la computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto si verifica (solo) quando il datore di lavoro sia responsabile della situazione nociva e dannosa, per violazione dell’art. 2087 c.c.
Ribadito ciò, la Cassazione analizza il CCNL applicato alla fattispecie. L’art. 41 individua un termine massimo di conservazione del posto di lavoro in caso di assenze per malattie protrattesi fino a 12 mesi (comporto secco, comprensivo di malattie con intervalli non superiori a trenta giorni), oppure 24 mesi nell’arco di 48 mesi consecutivi (comporto per sommatoria). L’art. 50, per l’ipotesi di assenze dovute a infortunio sul lavoro o malattia professionale, prevede che il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto. Questa disposizione non contiene alcun riferimento alla responsabilità datoriale e, quindi, riveste carattere generale. Inoltre, contiene una sola eccezione, espressa con la locuzione “Fermo restando quanto previsto al comma VI”. Il comma VI sancisce che, in caso di assenza dovuta ad infortuni sul lavoro o a malattia professionale, i primi sedici mesi non sono considerati utili ai fini del computo per sommatoria, di cui al secondo comma dell’art. 41.
L’art 41 come norma generale
Ciò significa che il VI comma introduce un limite individuato nelle assenze che si collocano dopo i primi 16 mesi e che saranno computabili unicamente ai fini del comporto per sommatoria, riferito cioè ad una “pluralità di episodi morbosi”.
Fornita la corretta interpretazione delle norme del CCNL, la Cassazione sottolinea che non sarebbe logico, né in alcun modo ragionevole una disciplina contrattuale, come intesa dai Giudici di appello, che escludesse il rilievo delle assenze per infortuni e malattie professionali solo dal computo del comporto per sommatoria e non dal calcolo del comporto secco.
L’errore interpretativo commesso da entrambi i Giudici di merito sta nell’avere considerato l’art. 41 come norma generale destinata a regolare il diritto alla conservazione del posto di lavoro in ogni caso, sia per le assenze dovute a malattia comune e sia per quelle dipendenti dalla nocività dell’ambiente di lavoro, ignorando la portata del primo comma dell’art. 50 che, nel disciplinare le conseguenze degli infortuni e malattie professionali, tratta in termini generali anche del diritto alla conservazione del posto di lavoro, risultando la disciplina dell’istituto distribuita in maniera paritetica sulle due disposizioni.
Avv. Emanuela Foligno