Il lavoratore svolgendo attività extralavorativa durante l’infortunio avrebbe ritardato la guarigione e così violato gli obblighi di correttezza, buona fede, diligenza e fedeltà.
La vicenda
Al dipendente era stato contestato lo svolgimento, nel periodo di assenza per infortunio sul lavoro, di attività extra lavorativa incompatibile con la condizione di infortunio e, comunque, tale da far presumere l’inidoneità dell’infortunio a determinare una assoluta incapacità lavorativa o da ritardare la guarigione, risultando la condotta contraria a correttezza e buona fede e in grado di compromettere il rapporto fiduciario.
Previa CTU medico-legale, i Giudici di secondo grado hanno accertato la sussistenza dello stato di malattia del lavoratore e l’assenza di incompatibilità della patologia (trauma distorsivo alla caviglia) con l’attività extralavorativa svolta dallo stesso (di ausilio ad alcuni operai incaricati di eseguire lavori edili presso la sua abitazione). Hanno ritenuto non raggiunta la prova, di cui era onerata la datrice di lavoro, della idoneità causale dell’attività extralavorativa a impedire, o anche solo a ritardare, la guarigione. La Corte di Appello di Milano ha quindi considerato insussistente il fatto contestato e annullato il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore. Ha inoltre condannato la Società alla reintegra nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria nel limite di dodici mensilità.
Il ricorso in Cassazione
Il datore di lavoro ricorre in Cassazione lamentando che il dipendente, svolgendo attività extralavorativa durante l’infortunio, avrebbe ritardato la guarigione e così violato gli obblighi di correttezza, buona fede, diligenza e fedeltà. Deduce, inoltre, che era onere del lavoratore provare la compatibilità dell’attività extra lavorativa con la malattia giustificativa dell’assenza dal lavoro. Le doglianze non sono fondate e viene confermata la decisione di secondo grado.
Secondo giurisprudenza ormai consolidata, lo svolgimento di “altra” attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, anche nel caso in cui la medesima attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (v. Cass. n. 26496/2018; n. 10416/2017; n. 17625/2014).
La Corte milanese ha applicato correttamente tali principi avendo, con accertamento di fatto, escluso sia l’inesistenza della malattia, sia che l’attività extralavorativa potesse avere avuto l’effetto di ritardare o pregiudicare la guarigione e quindi la ripresa del lavoro.
Le censure del datore di lavoro si basano sul ritardo nella guarigione provocato dall’attività extralavorativa, circostanza diversa da quella accertata dai Giudici di appello.
L’onere della prova è del datore di lavoro
Riguardo l’onere della prova, la Corte milanese – anche in questo caso correttamente – ha addossato alla parte datoriale l’onere di prova dei presupposti legittimanti il licenziamento, in coerenza col disposto dell’art. 5, legge n. 604 del 1966.
In tema di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, è il datore di lavoro che deve dimostrare che la malattia in questione sia simulata, oppure che ricorra l’ipotesi di attività potenzialmente idonea a pregiudicare, o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo.
La citata norma della legge del 1966, infatti, pone a carico del datore di lavoro l’onere di prova di tutti gli elementi integranti la fattispecie giustificativa del recesso e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato.
Avv. Emanuela Foligno