I congiunti del paziente deceduto citano a giudizio la Casa di Cura e il chirurgo esponendo che la paziente, affetta da una neoformazione glomica ovvero da un tumore al terzo stadio sul glomo carotideo, veniva operata attraverso una operazione condotta con assoluta superficialità, nel corso della quale subiva un infarto ischemico cerebrale da trombosi della carotide sx, con gravi conseguenze permanenti (per le quali l’INPS accertava una invalidità permanente totale e una inabilità lavorativa al 100%).
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale, previo espletamento di una CTU, accoglieva la domanda degli attori, accertava la responsabilità per inadempimento sia del chirurgo sia della Casa di Cura e li condannava in solido al risarcimento dei danni cagionati nella misura di 498.285,36 euro, ancorato ad una invalidità permanente, successiva all’esecuzione dell’intervento e alle complicazioni che ne erano derivate, pari al 60% del totale. Li condannava, inoltre, a risarcire i danni ai prossimi congiunti della danneggiata principale, condannando le Assicurazioni Generali alla manleva.
I congiunti proponevano appello principale per ottenere una più congrua liquidazione del danno non patrimoniale e il riconoscimento del diritto al risarcimento anche del danno patrimoniale.
La Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello principale dei congiunti e accoglieva in parte quello incidentale proposto dalla Casa di Cura e dal chirurgo e, in riforma della sentenza di primo grado, condannava gli appellanti incidentali al risarcimento dei danni in misura inferiore.
I Giudici di appello ponevano a fondamento della diminuzione del quantum alcune affermazioni contenute nella CTU espletata in primo grado, secondo le quali il danno subito dalla donna per le modalità imprudenti e superficiali di esecuzione dell’intervento da parte del chirurgo era pari non all’intero equivalente monetario della invalidità permanente riportata a seguito dell’intervento, ma alla perdita di chance della donna di sottoporsi ad un intervento consimile con pieno successo, chance che stima in misura non superiore al 25/30% della invalidità permanente conseguente all’intervento, trattandosi comunque (anche se fosse stato eseguito con le dovute cautele) di intervento ad alto rischio.
L’intervento della Corte di Cassazione
I danneggiati lamentano che, pur confermando la responsabilità del chirurgo e della Casa di Cura e l’esistenza di postumi di invalidità permanente nella misura del 60%, i Giudici di secondo grado hanno liquidato in favore della paziente, non il danno biologico calcolato sulla base di quella percentuale di invalidità, ma il danno da perdita di chance di conseguire il pieno recupero funzionale a seguito dell’intervento chirurgico, ridimensionando in tal modo il risarcimento nella minor misura del 25/30% della somma liquidata in primo grado sulla base della invalidità effettivamente conseguente all’intervento chirurgico.
Sottolineano che la sentenza ha pienamente confermato la responsabilità sanitaria, integrata dalla superficialità con la quale aveva affrontato l’intervento chirurgico relativo a un tumore già al terzo stadio, di vaste dimensioni, che insisteva nella zona della carotide, per il quale avrebbe dovuto essere preventivamente eseguito uno studio angiografico sia della carotide sinistra sia della vascolarizzazione del circolo intracranico per scongiurare la ischemia poi verificatasi e ha confermato anche la mancata somministrazione di eparina sodica, che sarebbe stata necessaria per impedire la trombosi dell’arteria carotidea.
La doglianza coglie nel segno ed è corretta
I Giudici di appello da un lato affermano che l’intervento di rimozione del tumore al terzo stadio era indispensabile, ma anche che l’operazione necessaria per la sua asportazione presentava una elevata percentuale di rischio, del 70/75%. Al contempo, affermano che senza l’intervento chirurgico la paziente sarebbe andata incontro a morte sicura. Quindi, accertano la responsabilità del medico e della Casa di Cura per le modalità di esecuzione dell’intervento, ma rideterminano la misura del risarcimento del danno affermando che il pregiudizio effettivamente subito in conseguenza dell’errore medico non è pari all’equivalente economico della invalidità permanente del 60% riportata a seguito dell’intervento dalla paziente, ma la circoscrivono in una misura più ridotta, rapportandola alla perdita di chance di conseguire un risultato totalmente favorevole, pari nella fattispecie in esame solamente al 25/30%.
Detto in altri termini, viene ritenuto che il comportamento negligente dei convenuti abbia causato alla paziente un danno pari non all’intero equivalente monetario della invalidità permanente stabilizzatasi dopo l’operazione, ma solo al controvalore monetario delle chances perdute, pari al 30% dell’invalidità (pari al 60% del totale) derivante dall’operazione per la vittima principale, e ridetermina in proporzione il danno non patrimoniale spettante, estraendo il 70% dalla somma calcolata in primo grado e parametrata al 60% di invalidità permanente residuante.
Il secondo grado, quindi, ha risarcito solo la percentuale di possibilità di conseguire il risultato sperato – individuato nella guarigione completa dal tumore senza alcuna conseguenza permanente – che la paziente ha perso in conseguenza della superficialità con la quale un chirurgo neppure specializzato in chirurgia vascolare ha affrontato un intervento così complesso.
Il ragionamento dei giudici di secondo grado non è corretto
Il ragionamento non è corretto. Risulta accertato che è stata la negligenza del chirurgo a causare l’invalidità della paziente, perché sono state le carenze di diligenza e di cautele elementari che avrebbero dovuto essere adottate in relazione ad un intervento di siffatte caratteristiche che gli stessi giudici di merito hanno posto in connessione con i danni provocati alla paziente.
Fornita la prova da parte dei danneggiati che il danno è stato provocato dalla condotta negligente del medico, l’evento provocato dalla condotta del medico, sia esso la morte del paziente o un peggioramento della qualità della vita del paziente fondato su una invalidità permanente, non deve essere valutato in termini di perdita di chance ma soltanto di responsabilità medica e quindi, se è accertato il nesso causale tra il comportamento poco diligente del sanitario e il danno, il risarcimento deve essere liquidato nella sua pienezza, pari all’equivalente monetario del danno conseguenza.
Oltretutto, gli attori non hanno mai chiesto il risarcimento dei danni in termini di perdita di chance, mentre in appello è stato liquidato il danno da perdita di chance senza fosse mai chiesto, e senza quindi che il relativo thema decidendum fosse mai stato introdotto, ragionando come se il danno da perdita di chance fosse un minus del danno biologico intero piuttosto che una diversa tipologia di danno.
La Cassazione accoglie il ricorso e rinvia alla Corte di Bologna in diversa composizione (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 23 settembre 2024, n. 25466).
Le osservazioni dell’Avv. Foligno
La sentenza della Corte di Bologna contiene un clamoroso errore perché ha disatteso il principio secondo cui deve essere liquidato l’intero danno effettivamente verificatosi, condannando a seconda dei casi i sanitari al risarcimento del danno da morte o da riduzione della durata della vita o da perdita di qualità della stessa o da invalidità permanente prodotta a causa della loro condotta imperita o negligente nella sua interezza.
Il corretto ragionamento causale dei Giudici di secondo grado doveva essere finalizzato ad accertare se i postumi permanenti conseguenti all’operazione, secondo la regola della regolarità causale, era più probabile che non che fossero frutto dell’accertato errore medico. Accertato ciò, la Corte di Bologna avrebbe dovuto liquidare in favore della paziente il risarcimento di tutto il danno conseguenza verificatosi, ovvero l’equivalente monetario del pregiudizio conseguente ai postumi permanenti dovuti alla non corretta esecuzione dell’operazione, mentre se non fosse stata accertata la sussistenza del rapporto causale tra il comportamento del medico e l’invalidità riportata dalla paziente, sulla base del criterio probabilistico, alla paziente non sarebbe spettato nulla.
Avv. Emanuela Foligno