Malformazioni del feto colpevolmente ignorate dai medici

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Il bambino alla nascita presentava “tetraoligoectrodattilia”, con mancanza integrale del piede sinistro e con l’altro piede e le mani solo abbozzati. Tali malformazioni del feto non venivano diagnosticate in seguito alla ecografia del secondo semestre.

La vicenda

I genitori del bambino sostengono che le malformazioni rinvenute alla nascita erano state colpevolmente ignorate nell’ecografia eseguita in occasione del secondo semestre di gravidanza dalla dottoressa operante presso la Casa di cura privata “Villa El.”. Inoltre, in conseguenza dell’errore diagnostico, il medico aveva altrettanto colpevolmente violato l’obbligo di informazione sulle patologie malformative del feto e il correlativo diritto della madre di esercitare una libera e consapevole scelta in ordine all’interruzione della gravidanza.

Il Tribunale di Locri, espletate due CTU, con sentenza non definitiva (n. 469/2006):

  • a) rilevò il difetto di legittimazione attiva del minore;
  • b) dichiarò cessata la materia del contendere tra gli attori, da un lato, e la struttura sanitaria e la assicurazione Ras dall’altro, per intervenuta transazione;
  • c) accertò la responsabilità della dottoressa, nonché l’obbligo di INA Assitalia Spa di tenerla indenne delle somme che fosse stata condannata a corrispondere agli attori fino alla concorrenza del massimale di polizza, pari ad oltre 774.000 euro. Successivamente, interveniva sentenza definitiva (516/2008) di liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

INA Assitalia impugna in appello entrambe le sentenze. La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza 9 aprile 2020, n. 294:

  • a) in parziale riforma della sentenza di primo grado non definitiva n. 469/2006, confermata nel resto, ha “revocato” la statuizione di accertamento della responsabilità del medico;
  • b) in totale riforma della sentenza di primo grado definitiva n. 516/2008, ha rigettato la domanda risarcitoria degli attori, compensando le spese dei due gradi di giudizio.

I rilievi svolti dai Giudici di Appello

  1. l’inesatto adempimento da parte del medico doveva reputarsi sussistente: infatti, sebbene, da un lato, le CTU espletate avessero evidenziato la difficoltà di accertamento ecografico delle malformazioni del feto, avuto riguardo alle conoscenze tecniche dell’epoca e alla natura della patologia – e sebbene, dall’altro lato, la paziente si fosse recata con ritardo (solo alla ventiquattresima settimana) a svolgere l’ecografia del secondo trimestre di gravidanza, fissata per la ventesima settimana – tuttavia proprio l’ecografia del secondo semestre (da svolgersi tra le 20 e le 22 settimane) sarebbe stata quella deputata, secondo le linee guida sugli screening ecografici, alla valutazione dell’eco-anatomia fetale per il rilievo di eventuali malformazioni del feto e allo studio della biometrica fetale, mentre l’ecografia precedente del primo trimestre (tra le 19 e le 12 settimane) e quella del terzo trimestre (tra le 30 e le 34 settimane) avrebbero invece avuto funzioni differenti.
  2. La dottoressa, in occasione della ecografia del secondo semestre, avrebbe dovuto porsi l’obiettivo di visualizzare le estremità degli arti (eventualmente segnalando le difficoltà o le impossibilità di visualizzazione in concreto incontrate) e, comunque, nell’osservanza delle regole di perizia e diligenza professionali, avrebbe dovuto avvedersi della mancanza del piede sinistro, totalmente assente, e della mano sinistra, mancante dell’articolazione del polso.
  3. In contrario, non poteva attribuirsi rilievo al ritardo con cui la gestante si era presentata all’esame ecografico, poiché soltanto alla ventottesima settimana di gravidanza la riduzione dell’ampiezza dei movimenti fetali e della quantità di liquido amniotico avrebbe reso difficile la predetta visualizzazione e, con essa, la diagnosi delle malformazioni del feto e il regolare adempimento dell’obbligo informativo.
  4. Gli attori non avevano dimostrato il nesso causale tra il rilevato inadempimento del medico e il danno da loro lamentato: infatti, avuto riguardo, da un lato, al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (secondo cui spetta al genitore che agisce per il risarcimento del danno da nascita indesiderata provare, anche attraverso presunzioni, che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale) e, dall’altro lato, al principio per cui il giudizio circa la sussistenza del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (circostanza cui l’art.6, lett. b), l. n. 194/1978, subordina la possibilità di abortire) va condotto con giudizio ex ante, doveva escludersi, sotto quest’ultimo profilo, il rilievo della CTU espletata (che aveva diagnosticato a carico della donna una lieve sindrome ansioso-depressiva comportante un esiguo danno biologico di grado pari al 4%,) e doveva prendersi atto, quanto all’onere di dimostrare la scelta abortiva, che nessuna prova, anche presuntiva, era stata in tal senso fornita dagli attori, deponendo anzi in senso contrario proprio la circostanza che la paziente si era recata all’effettuazione della ecografia del secondo semestre dopo che erano ormai trascorse 24 settimane dall’inizio della gravidanza, malgrado questo screening fosse notoriamente fondamentale per la diagnosi di sindromi o malformazioni del feto e a dispetto della vitale importanza da attribuirsi, a salvaguardia della scelta abortiva, alla precocità di detta diagnosi in relazione al disposto dell’art. 7 della legge n. 194/1978 (secondo cui la sussistenza della possibilità di vita autonoma del feto limita la scelta della madre di interrompere la gravidanza alla sola ipotesi di cui all’art. 6 lett. a) della stessa legge, inerente al grave pericolo per la vita della donna.)

L’intervento della Cassazione

I genitori della vittima, deducono, da un lato, la violazione del principio dispositivo in senso materiale (art. 112 cod. proc. civ.) per ultrapetizione; dall’altro lato, la violazione del principio dispositivo in senso formale (art. 115 cod. proc. civ.) per violazione del principio di non contestazione. Viene richiamata la deduzione contenuta a pag. 5 dell’atto di citazione ove essi avevano affermato che “di certo infatti la donna ancora molto giovane e con modeste risorse economiche, dunque impreparata ad affrontare i disagi morali e materiali derivanti dalla nascita di un figlio con gravi handicaps fisici, avrebbe optato per l’interruzione di gravidanza”.

Evidenziano che questa deduzione non era stata contestata e sostengono che, pertanto, la Corte d’appello, nel ritenere che spettasse a parte attrice la prova della circostanza che, ove tempestivamente informata delle malformazioni del feto, la gestante avrebbe optato per l’interruzione della gravidanza, per un verso, avrebbe introdotto ex officio una questione non controversa tra le parti; per l’altro, avrebbe ritenuto non provata una circostanza non contestata.

Non vi è nessun vizio di ultrapetizione, dal momento che la prova di cui la Corte d’appello ha reputato la mancanza attenesse ad un fatto costitutivo della domanda.

Difatti, “in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza -ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale“.

Oltre alla prova che, se fosse stata debitamente informata, la gestante avrebbe abortito, nell’ipotesi in cui – come nel caso concreto – l’aborto avrebbe dovuto essere praticato dopo i 90 giorni dall’inizio della gravidanza, la parte attrice deve anche fornire l’ulteriore dimostrazione della sussistenza di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978.

I Giudici di Appello non sono incorsi in ultrapetita

Nel valutare queste due circostanze i Giudici di Appello non sono incorsi in ultrapetita, ma hanno indagato sulla sussistenza di fatti costitutivi della domanda, ponendosi il problema del riparto dell’onere della prova e risolvendolo (correttamente) come a carico degli attori.

Dunque, nel porre la questione relativa alla prova di tali due circostanze, la Corte d’Appello non è andata ultrapetita ma ha indagato sulla sussistenza dei fatti costituitivi della domanda, ponendosi il problema del riparto dell’onere della prova e risolvendolo correttamente nel senso che esso gravasse sugli attori.

La prova, incombente sulla gravida, della volontà di esercitare la facoltà di interrompere la gravidanza, può essere fornita anche mediante presunzioni, le quali devono essere valutate dal Giudice secondo un modello “atomistico-analitico”, fondato sul rigoroso esame di ciascun singolo fatto indiziante e sulla successiva valutazione congiunta, complessiva e globale, degli stessi, da compiersi alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale e concordanza (Cass. 27/06/2023, n. 18327). Eguale ragionamento per l’accertamento della sussistenza del grave pericolo per la salute della gravida.

Nel caso in esame, al contrario, erano emersi fatti indizianti (lieve danno biologico per sindrome ansioso depressiva; malformazioni del feto che non determinavano il detto grave pericolo; ritardo nel recarsi all’esame ecografico del secondo semestre) che deponevano in senso inverso e che hanno indotto la Corte di merito a reputare che le predette circostanze non fossero state provate.

Ed ancora, con separata censura, i ricorrenti lamentano il rigetto dell’ulteriore domanda con cui, indipendentemente dalla violazione del diritto ad esercitare l’interruzione della gravidanza, era stato chiesto il risarcimento del danno determinato dalla compromissione del diritto della donna ad essere informata sulle malformazioni del feto per non essere stata posta in grado di prepararsi psicologicamente al parto.

La violazione del diritto dei genitori ad essere informati

Questa censura è fondata. In altre parole, viene dedotta la violazione del diritto dei genitori ad essere informati, non in funzione dell’esercizio del diritto di autodeterminarsi in ordine alla scelta abortiva spettante alla madre, ma in vista della predisposizione ad affrontare consapevolmente l’evento doloroso della nascita di un figlio malformato.

Viene, dunque, considerata la rilevanza autonoma dell’informazione, non in quanto strumentale ad orientare la scelta abortiva, ma in quanto idonea ex se a consentire di evitare o mitigare la sofferenza conseguente al detto evento.

Per tali ragioni, non è corretta, sia perché contra ius, sia perché illogicamente motivata, la statuizione con cui la Corte d’Appello – sul presupposto che la sofferenza psichica dei genitori sarebbe stata la medesima a prescindere dal tempestivo adempimento dell’obbligo informativo – ha rigettato la domanda di risarcimento del danno morale della gestante conseguente al trauma determinato dall’apprendere delle malformazioni del figlio al momento della nascita, dopo che, durante il periodo della gestazione, essa era stata rassicurata circa il normale stato di salute del feto (Cassazione Civile, sez. III, 19/06/2024, n.16967).

Avv. Emanuela Foligno

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