Aborto terapeutico per presenza di Sindrome di Down (Cass. civ., sez. III,  27 giugno 2023, n. 18327).

La decisione a commento tratta, ancora una volta, della omessa diagnosi di Sindrome di Down e della possibilità per la madre di ricorrere ad aborto terapeutico: in tale caso è dovuto il risarcimento del danno.

I coniugi citavano in giudizio la ASL chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti della omessa diagnosi della sindrome di Down, di cui è risultato affetto il figlio, a titolo di lesione del diritto di autodeterminazione.

Nello specifico deducevano che erano stati eseguiti sia la translucenza nucale che il prelievo ematico (23 e 24 aprile 2009). Il Medico, nell’inserire i referti nel sistema informatico, indicava erroneamente, come data di esecuzione della translucenza nucale quella del 23 maggio 2009, in luogo della data effettiva. A seguito di ciò, il programma informatico elaborava un risultato falsato rispetto alla realtà, indicando l’esistenza di una probabilità contenuta di presenza della sindrome di Down, tenuto conto dell’età della gestante.

Ergo, secondo la tesi dei danneggiati, se fosse stata inserita la data corretta, la probabilità di anomalie genetiche calcolata dal sistema informatico sarebbe stata molto più elevata, ed essi, ove ne fossero stati resi edotti, avrebbero senz’altro deciso di interrompere la gravidanza.

La ASL, nel costituirsi a giudizio, eccepiva che il rapporto tra la gestante e il Medico era stato di tipo libero professionale, e che rispetto ad esso la Struttura era rimasta estranea. Per tale ragione, chiamava in causa il Medico e la società fornitrice del software, che, a sua volta, chiamava in giudizio la società esclusiva distributrice del software, nonchè la società produttrice e la propria compagnia di assicurazioni.

Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che i danneggiati non fornivano la prova che, qualora il Medico non avesse eseguito errori nella fase di inserimento dei dati della traslucenza nucale, sarebbe stato possibile interrompere la gravidanza. Negava, inoltre, che fosse emerso un grave pericolo per la salute della madre in conseguenza della nascita del piccolo, e riteneva che i danneggiati non avessero idoneamente provato che, una volta a conoscenza della Sindrome di Down, la volontà della gestante sarebbe stata quella di interrompere la gravidanza.

La decisione viene impugnata in appello dove la coppia sostiene di avere fornito idonea prova sia dell’esistenza della volontà di procedere all’interruzione della gravidanza, sia che la mancata esecuzione di amniocentesi fosse riconducibile, per un verso, proprio all’alterato esito del test di traslucenza e, per l’altro, al suggerimento, proveniente dallo stesso Medico in considerazione del risultato “nella norma” del test, di non sottoporsi all’amniocentesi perché eccessivamente invasiva e rischiosa.

La Corte di Appello confermava la decisione di prime cure, configurandosi, in tal senso la sussistenza di una “doppia conforme”.

La vicenda approda in Cassazione. La Suprema Corte, preliminarmente, evidenzia che nessuna delle censure concerne la situazione del bambino nato con la Sindrome di Down, pertanto, il rigetto dell’autonomo diritto di quest’ultimo al ristoro del danno risulta passato in giudicato.

La seconda censura – che viene considerata fondata –  riguarda la corretta applicazione dei principi inerenti la privazione di una libera e consapevole determinazione sulla scelta di ricorrere all’aborto terapeutico nei limiti consentiti dalla legge.

I Giudici di merito, difatti, hanno commesso due errori di diritto, che inficiano la correttezza della decisione.

Gli Ermellini richiamano la decisione a Sezioni Unite del 2015 (SS.UU. 25767/2015), inerente l’impossibilità di ricorrere alla interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell’art. 6, L. 194/1978, per carente e/o omessa informazione delle condizioni del feto.

I Giudici di Appello, hanno erroneamente assunto come dato certo la consapevole scelta della madre di non eseguire l’esame di amniocentesi, e da lì hanno dedotto che la volontà di abortire non era così certa come affermato, considerata la volontaria mancata esecuzione dell’unico accertamento che avrebbe confermato, oppure escluso, la presenza di malformazioni.

In caso di omessa diagnosi, e/o omessa informazione, di malformazioni del feto, l’onere probatorio è a carico della madre e il thema probandum è costituito da:

-la rilevante anomalia del nascituro,

– l’omessa informazione da parte del medico,

-il grave pericolo per la salute psicofisica della donna e la scelta abortiva.

Oltre a ciò deve essere valutata anche la determinazione di volontà interiore della donna.

Avv. Emanuela Foligno

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