Le imputate erano accusate di aver causato lesioni gravi all’assistita, degente di una RSA, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia

Come tutti gli operatori di una struttura sanitaria, quale è una R.S.A., l’infermiere — e valga anche per l’operatore sanitario – è ex lege portatore di una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà, costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti/degenti, la cui salute egli deve tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 16132/2021 pronunciandosi sul ricorso di un’infermiera professionale di un’operatrice socio sanitaria, condannate in sede di merito per aver causato – per colpa, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, non accudendo con attenzione e cura la degente di una RSA e, comunque non avvedendosi delle ingravescenti condizioni generali di salute della donna ed omettendo le dovute informazioni al medico o ai responsabili della struttura residenziale ovvero al medico di fiducia della signora – lesioni personali gravi all’assistita, costituite da stato di incoscienza, dispersione di urina, edemi declivi, ulcere da decubito con aree necrotiche, grave compromissione della pressione arteriosa, grave ipernatremia con disidratazione, infezione delle vie urinarie con ematuria e piuria, condizioni che esponevano a pericolo la vita della persona offesa.

Nella querela, sporta dal figlio della persona offesa, si rappresentava che questa, 89enne in buone condizioni di salute prima del ricovero presso la predetta Residenza per Anziani, aveva subìto un progressivo, palese, peggioramento, apparendo sempre più assente, con evidente gonfiore alle gambe.

Il figlio, recatosi presso la struttura, la trovava distesa sul letto e in coma; il personale gli riferiva che la madre sarebbe morta di lì a poco.

Nel ricorrere per cassazione l’infermiera, in particolare, deduceva che il peggioramento delle condizioni di salute della signora fosse avvenuto in maniera repentina ed imprevedibile. L’imputata non aveva mai ricevuto segnalazioni da parte delle OSA al riguardo della persona offesa, atteso che non era suo compito occuparsi di spogliarla, lavarla e cambiarla. Il giudice di appello- a detta della ricorrente – non aveva quindi adeguatamente valutato le ricadute della cattiva gestione della RSA; la carenza organizzativa in cui versava la struttura avrebbe costituito un’esimente per il sanitario che si trovava ad operare in assenza di strumenti e direttive, considerato altresì che l’imputata doveva gestire, insieme a sole altre due infermiere, ben 41 pazienti.

L’operatrice socio sanitaria, invece, contestava alla Corte territoriale di non avere adeguatamente considerato la gravissima situazione di carenza di organico in cui l’imputata si trovava ad operare. Non corrispondeva al vero che le condizioni della persona offesa si erano progressivamente aggravate nel corso dei venti giorni di ricovero presso la struttura sanitaria, posto che dalle stesse dichiarazioni della nuora della donna si evinceva che non era così evidente il progressivo peggioramento delle sue condizioni. Al momento dell’ingresso dell’anziana nella RSA non era stato affatto prescritto un piano di mobilizzazione della degente.

La Suprema Corte, tuttavia, ritenuto inammissibili i motivi di doglianza proposti. Gli Ermellini hanno evidenziato come i ricorsi facessero leva, al fine di escludere la responsabilità penale delle imputate, su un duplice ordine di ragioni: l’inadeguatezza organica della struttura per la ridotta presenza di personale rispetto al numero eccessivo e fuori regola dei ricoverati e il decadimento repentino ed imprevedibile delle condizioni della donna. Argomentazioni, entrambe, che la Corte territoriale aveva confutato con motivazione congrua e corretta in diritto.

L’affermazione di colpevolezza delle ricorrenti, “poggia – hanno sottolineato dal Palazzaccio – su un compendio probatorio, ampio e convergente”.

Nella sua testimonianza, il medico curante aveva escluso che le gravi condizioni cliniche (impossibilità a camminare, difficoltà di deglutizione) rappresentassero evoluzione delle originarie patologie, affermando che le stesse erano insorte successivamente al ricovero nella struttura, atteso che in precedenza la donna si trovava in una situazione stabile e ben controllata attraverso un’adeguata terapia; alle medesime conclusioni era pervenuto il consulente del pubblico ministero il quale aveva, altresì affermato, che il quadro clinico della degente era ascrivibile alle gravi carenze gestionali della struttura e che i sintomi da questa mostrati da alcuni giorni erano immediatamente percepibili; la nuora della persona offesa riferiva di aver assistito ad un graduale peggioramento della suocera, attestato altresì dal medico del Pronto Soccorso, il quale aveva evidenziato, oltre allo stato di incoscienza e al grave quadro di shock settico, ulcere da decubito e necrosi, considerando la signora in imminente pericolo di vita.

Nella sentenza impugnata si ricordava, poi, che alcune dipendenti della struttura avessero dichiarato che erano le infermiere a controllare, di solito, che gli ospiti non avessero piaghe da decubito e che le operatrici sanitarie segnalavano verbalmente eventuali problematiche, annotandole a fine giornata sul quaderno delle consegne; in caso di necessità, le infermiere aiutavano le operatrici sanitarie anche nella cura generale dei pazienti.

Ciò detto, alla Corte di appello non era certo sfuggito il dato costituito dalle gravi carenze strutturali, su più piani, della R.S.A., così come accertato dalle successive indagini amministrative, ma il Giudice a quo aveva esattamente ritenuto che esse non esimessero le ricorrenti da responsabilità.

Alle imputate, in particolare, veniva rimproverato di non aver prestato la dovuta attenzione alle condizioni della degente, il cui progressivo degrado, nel corso dei venti giorni da lei trascorsi nella struttura, era tale da poter essere colto anche dai profani.

La tesi difensiva, proposta da entrambe le ricorrenti, volta a dedurre responsabilità altrui, ivi compresa, come si è detto, quella della struttura, non poteva trovare accoglimento. “Peraltro – ha affermato ancora il Supremo Collegio – una volta acclarata la posizione di garanzia ricoperta dall’autore del fatto, eventuali ulteriori condotte o fattori che si innestino nel meccanismo causale sono di regola irrilevanti”. Al riguardo, infatti, i Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito il consolidato principio secondo cui, “in caso di condotte colpose indipendenti, non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità”.

La redazione giuridica

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