Secondo i consulenti della Procura di Cosenza la gestante, morta al sesto mese di gestazione con il piccolo che portava in grembo, forse si poteva salvare

Era morta al sesto mese di gestazione assieme al bimbo che portava in grembo nell’agosto del 2020. A distanza di circa dieci mesi, i consulenti incaricati dalla Procura di Cosenza di fare luce su eventuali responsabilità per la duplice tragica scomparsa, rendono note le proprie conclusioni, ipotizzando che la donna potesse salvarsi.

In base a quanto ricostruito, anche sulla base della denuncia presentata in Questura dal coniuge della vittima, la gestante, 34 anni, era arrivata una prima volta in Pronto soccorso lamentando dolori addominali, vomito, e dissenteria, ma dopo una serie di accertamenti sarebbe stata dimessa. Il tracciato, effettuato in quell’occasione, non avrebbe evidenziato anomalie nel battito cardiaco del feto. A distanza di alcuni giorni, perdurando il malessere, era tornata in ospedale e questa volta era stata stata trattenuta. Le sue condizioni, però, si sarebbero aggravate repentinamente, sino al sopraggiungere del decesso. Con lei era morto anche il piccolo che portava in grembo.

Il marito, sospettando lacune nell’assistenza prestata alla moglie nel percorso ospedaliero, aveva presentato una denuncia alla polizia e la magistratura aveva avviato le indagini, disponendo il sequestro della cartella medica e lo svolgimento dell’autopsia.

Gli accertamenti peritali avrebbero evidenziato – riporta il Corriere della Calabria – “una tenace aderenza che esercitava un cingolo occludente su un segmento di intestino tenue, sede di un pregresso intervento di appendicectomia”.

Gli esperti sottolineano come nella denuncia-querela, si fosse affermato che la donna “aveva avvertito una sintomatologia addominale associata ad episodi di vomito e diarrea” e per questo aveva deciso di raggiungere il pronto soccorso del nosocomio di Cosenza. In occasione del primo accesso, secondo i consulenti, la condotta del sanitario che prese in cura la paziente sarebbe stata “corretta e diligente”. Ma la settimana successiva, quando la donna si era recata nuovamente in ospedale, la condotta del personale sanitario del turno notturno “che rimase inattivo mentre la paziente vomitava e non allertò i ginecologi di guardia” non appare condivisibile e sarebbe connotata da profili di responsabilità per negligenza, imprudenza e imperizia. Ciò in quanto “i vomiti tardivi sono quasi sempre legati ad una malattia organica, soprattutto quando hanno tendenza a ripetersi”.

L’esame necroscopico, effettivamente, “ha consentito di rilevare che la nausea e il vomito erano sostenuti da una causa organica, un’ernia interna costituita da aderenze formatesi, quando la paziente era affetta da appendicite acuta”.

Secondo gli esperti, dunque, “una tempestiva consulenza chirurgica e il posizionamento del sondino naso gastrico avrebbero indotto ad eseguire un esame dell’addome e l’esecuzione di un intervento risolutivo”.

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