Il Tribunale di Nola condannava il medico chirurgo dipendente della struttura sanitaria “Casa di Salute Clinica S. Lucia” in S. Giuseppe Vesuviano alla pena di un anno di reclusione ed al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili. Il medico è stato ritenuto colpevole di negligenza, imprudenza ed imperizia per omessa diagnosi di infarto ed in particolare nella violazione delle regole dell’ars medica, in occasione del ricovero presso il Pronto Soccorso.
- Non effettuava una corretta diagnosi dei sintomi dell’IMA (infarto miocardico in fase acuta), ritenendo trattarsi di dolori intercostali (“dolore in regione toracica che aumenta con la digitopressione e con la respirazione – dolore recidivante”), e somministrando, in tal modo, un medicinale analgesico senza effettuare alcun esame strumentale, ed in particolare ometteva di praticare un ECG nonché un prelievo per la verifica degli enzimi cardiaci, nonostante l’anamnesi patologica del paziente (soggetto quarantaduenne, forte fumatore ed iperteso).
- Non approfondiva i sintomi lamentati dal paziente attraverso gli esami strumentali di cui sopra, e dimetteva il paziente al domicilio senza sottoporlo a ricovero per praticargli la fibrinolisi (o l’eventuale PIC, ossia un intervento percutaneo coronarico), in modo da tenerlo costantemente monitorato rispetto ai possibili disturbi del ritmo cardiaco ed eventuali arresti cardiaci.
- Cagionava il decesso del paziente verificatosi il 25/9/2013 a seguito delle complicanze (sensi respiratoria, anemia e piaghe da decubito), di un danno cerebrale post-anossico (stato vegetativo persistente) determinato da un arresto cardiaco per infarto acuto del miocardio.
Con sentenza del 3/11/2022 la Corte di Appello di Napoli, pronunciando sul gravame nel merito proposto dall’imputato e dal responsabile civile “Casa di Salute Clinica Santa Lucia Srl” ha confermato la sentenza del Tribunale di Nola.
Il ricorso in Cassazione
Il Medico, quindi, impugna la decisione in Cassazione dolendosi, in particolar modo, della insussistenza del nesso causale tra il decesso del paziente (avvenuta dopo 15 mesi dalla contestata prima visita in pronto soccorso) e l’omessa diagnosi di infarto cioè la responsabilità contestatagli, anche alla luce del fatto che durante tale periodo il paziente era stato ricoverato presso varie strutture.
Ed ancora, sempre secondo il Medico, la Corte di appello non avrebbe tenuto conto dei dati clinici evidenziati dal Consulente che ha chiarito i motivi per cui la sepsi fosse da ascriversi alla cattiva gestione del paziente. La sepsi sarebbe l’unica causa di morte da sola sufficiente a causare il decesso e la propria condotta, in assenza di linee guida, era stata conforme alle buone pratiche.
Le censure non colgono nel segno.
L’imputato non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità, con riferimento al nesso di causalità e al decesso del paziente.
Ad ogni modo, il reato di cui all’imputazione era già prescritto all’atto della pronuncia della sentenza di secondo grado. La Corte territoriale, infatti, si è pronunciata in data 3/11/2022, mentre il termine massimo di prescrizione era decorso al 24/4/2022.
I fatti contestati all’imputato
Nel merito, ai soli fini civili, la Cassazione analizza i fatti. Per quanto ascrivibile all’imputato:
Al Medico viene contestato di avere serbato, in qualità di medico di turno del pronto soccorso della Clinica Santa Lucia di San Giuseppe Vesuviano, una condotta connotata da negligenza, imperizia e imprudenza in occasione dell’accesso del paziente nelle prime ore del mattino del 28 febbraio 2012. Condotta che avrebbe determinato il 29 maggio 2013, dopo un lungo periodo di stato vegetativo persistente, il decesso verificatosi a causa di complicanze (sepsi respiratoria, anemia e piaghe da decubito) di un danno celebrale postanossico determinato da un arresto cardiaco per infarto acuto del miocardio.
Il giorno 26/2/2012 all’accesso al pronto soccorso, altro Medico controllava i parametri vitali (frequenza cardiaca e pressione), eseguiva una digitopressione – che aveva esito positivo, effettuava un elettrocardiogramma, eseguiva gli esami ematochimici di routine e i markers cardiaci e somministrava al paziente una fiala di Lasix. Nell’attesa dei risultati degli esami, il paziente veniva trattenuto in osservazione e, dopo circa sei ore, veniva sottoposto ad un ulteriore elettrocardiogramma che dava ancora esito negativo, il paziente veniva invitato al ricovero ma firmava le dimissioni e lasciava il pronto soccorso.
Due giorni dopo, il 28/2/2012, il paziente si ripresentava al pronto soccorso ove il Medico di turno era l’imputato che, dopo avere eseguito una digitopressione – avente esito positivo poiché il dolore aumentava con la pressione e con la respirazione, – praticò una fiala di Toradol. Il paziente non veniva visitato e l’imputato si limitava a richiamare la diagnosi del collega che lo aveva preso due giorni prima, diagnosticava “un dolore intercostale” e, per tale ragione, somministrava il Toradol, prescrivendo l’assunzione di Oki in caso di persistenza del dolore.
La necessità della diagnosi differenziale
Alle ore 14 dello stesso giorno il paziente perdeva i sensi e veniva trasportato all’Ospedale di Nola ove giungeva in arresto cardiocircolatorio e arresto respiratorio.
Ebbene, il consulente del PM rilevava che il dolore toracico lamentato dal paziente avrebbe imposto di eseguire una diagnosi differenziale, trattandosi di sintomatologia che poteva essere ricondotta ad un dolore intercostale, ma anche a ben più gravi patologie cardiache, soprattutto tenuto conto dell’età, del sesso e degli ulteriori fattori di rischio (sovrappeso e fumatore).
L’imputato avrebbe dovuto eseguire indagini strumentali e non adagiarsi sulla diagnosi effettuata molte ore prima dal collega. In particolare, come specificato dai Consulenti della accusa e della difesa, sulla scorta delle linee guida accreditate dalla comunità scientifica, sarebbe stato necessario eseguire un elettrocardiogramma e le analisi degli enzimi, tenere in osservazione il paziente, e ripetere questo screening nelle ventiquattro ore almeno una seconda volta.
Tale comportamento è stato gravemente imperito e l’imputato non ha effettuato una corretta diagnosi che avrebbe ridotto la percentuale di mortalità.
Lo shock settico
Per quanto riguarda lo shock settico sopravvenuto a distanza di tempo, la S.C. rammenta che il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento di cui all’art. 41 co. 2 c.p. si riferisce non solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, ma anche a quello di un processo non completamente avulso dall’antecedente, e però caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presuppostale (tra le altre, Sez. 2 n. 17804 del 18/03/2015, Sez. 4, Sentenza n. 10626 del 19/02/2013). Il nesso causale tra condotta ed evento si può considerare interrotto quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta.
Perciò, una volta determinatasi l’ipossia cerebrale a causa dell’omessa diagnosi di infarto del miocardio da parte dell’imputato, era prevedibile la condizione di allettamento del paziente che sarebbe da essa derivata e tutte le correlate complicazioni, ivi comprese le piaghe da decubito che, non trovando la condizione di allettamento una definitiva soluzione, tendono progressivamente ad aggravarsi, anche in presenza di una corretta nursing, e a determinare a loro volta lo shock settico dal quale fu affetto, nella fase finale della sua vita, il paziente. Per contro, qualora l’imputato avesse posto in essere la condotta ritenuta doverosa (apprestamento di tutti gli esami diagnostici e strumentali utili ed opportuni per il caso di specie), l’evento morte sarebbe stato evitato con una probabilità vicina alla certezza (Cassazione penale, sez. IV, dep. 19/02/2024, n.7215).
Avv. Emanuela Foligno