Pensione di invalidità e falsi certificati medici (Cassazione penale, sez. II, dep. 19/10/2022, n.39546).
Pensione di invalidità e falsi certificati medici conducono alla condanna penale.
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 14 luglio 2021, rideterminava la pena alla quale erano stati condannati i 6 imputati condannati per il reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, per essersi procurati, tramite falsi certificati medici, pensione di invalidità malgrado non ne avessero i requisiti.
La vicenda approda in Cassazione dove viene lamentata la mancata concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla contestata recidiva ed evidenziato che la sentenza impugnata non dimostrava di aver tenuto conto in alcun modo i motivi addotti dall’appellante nell’atto di gravame.
Inoltre viene eccepito che la qualificazione del fatto appariva palesemente erronea, così come errata la contestazione delineata originariamente dal Pubblico Ministero, visto che la condotta avrebbe dovuto essere inquadrata nell’alveo dell’art. 316 ter c.p..
Uno degli imputati, osserva che era stato giudicato invalido al 52% dopo la visita del 17/6/2009, ma gli era stata poi riconosciuta una invalidità totale; il ragionamento si scontrava con le seguenti considerazioni: 1) qualora avesse presentato alla Commissione medica dei certificati falsi per indurre la stessa in errore e fosse riuscito nel suo intento, evidentemente sarebbe stato giudicato invalido al 100% e non al 52%; 2) la percentuale di invalidità del 52% riportata nell’elenco della seduta del 17/6/2009 poteva essere dovuta ad un errore del soggetto che aveva trascritto il dato nell’apposito registro; l’imputato avrebbe dovuto quindi essere assolto dal reato ascrittogli.
Tutti i ricorsi degli imputati vengono considerati inammissibili.
A seguito della reintroduzione del cd. patteggiamento in appello, di cui al nuovo art. 599-bis c.p.p., ad opera della L. n. 103 del 2017, rivive il principio – elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nel vigore del similare istituto previsto dell’art. 599 c.p.p., comma 4, e successivamente abrogato dal D.L. n. 92 del 2008 – secondo cui il Giudice d’appello, nell’accogliere la richiesta di pena concordata, non è tenuto a motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per taluna delle cause previste dall’art. 129 c.p.p., in quanto, a causa dell’effetto devolutivo, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi d’impugnazione, come nel caso in esame, in cui gli appellanti hanno rinunciato ai motivi di gravame e concordato la pena con il Procuratore generale, la cognizione del Giudice deve limitarsi ai motivi non rinunciati, essendovi peraltro una radicale diversità tra l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti e quello disciplinato dal citato art. 599 c.p.p.
E’ vero che la giurisprudenza ha precisato che “E’ illegittima la decisione del Giudice di appello che si limiti ad applicare la pena nella misura concordata, senza statuire sulla richiesta del beneficio della sospensione condizionale della pena cui sia subordinato l’accordo delle parti, poiché il beneficio si pone come elemento determinante nel processo di formazione della volontà negoziale della parte, rappresentando, quindi, una componente costitutiva della piattaforma negoziale, sulla quale si è perfezionato il suddetto accordo”, ma in questo caso, come risulta dai verbali di udienza prodotti in atti, l’accordo non era subordinato alla concessione della sospensione condizionale della pena, posto che difensore e Pubblico Ministero avevano concordato sulla pena, e solo dopo la conclusione dell’accorso i difensori avevano insistito sulla concessione della sospensione condizionale della pena (richiesta sulla quale, pertanto, nulla aveva detto il Pubblico Ministero).
Ciò posto, malgrado nel corso della visita medica fosse stata riconosciuta a uno degli imputati una invalidità nella misura del 52%, nel decreto della IV Municipalità era stata attribuita una invalidità totale concludendo, in maniera del tutto logica, che ciò presupponeva l’esistenza di un atto falso, con conseguente sussistenza del reato di truffa; sul punto, il ricorso propone una inammissibile ricostruzione alternativa dei fatti, operazione non consentita in sede di legiittimità.
I ricorsi vengono dichiarati inammissibili e le parti vengono condannate al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 3.000,00 equitativamente fissata.
Avv. Emanuela Foligno
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