Nel caso in cui la convenzione stipulata tra la parte assistita e il professionista non contempli la specifica ipotesi della revoca del mandato, devono ritenersi applicabili i minimi tariffari

La vicenda

Con atto di citazione presentato dinanzi al Tribunale di Roma un avvocato esponeva di aver ricevuto incarico dal Ministero dell’economia e delle finanze (allora Ispettorato Generale per la liquidazione degli Enti Disciolti del Ministero del Tesoro), per le attività di difesa svolte in un rilevante numero di controversie civili, penali ed amministrative riguardanti enti pubblici in liquidazione.

Con apposita convenzione le parti avevano stabilito un compenso in favore del ricorrente pari agli onorari massimi previsti dalla tariffa per le cause di particolare complessità, agli onorari medi per quelle importanti e complesse e agli onorari compresi tra il minimo ed il massimo per quelle ordinaria complessità, salvo poi rinegoziarle con la successiva convenzione, stabilendo l’applicazione degli onorari minimi, ad eccezione delle liti conclusesi favorevolmente per l’ente, senza nulla prevedere per l’ipotesi di revoca del mandato.

Intervenuta la revoca del mandato, l’avvocato aveva ottenuto ingiunzione di pagamento di Euro 114.900 e la relativa opposizione era stata definita con sentenza che dichiarava l’inapplicabilità dei minimi tariffari per i giudizi non conclusi, liquidando in Euro 73.501,84 i compensi a lui spettanti in applicazione degli onorari medi.

Ma in primo grado l’istanza dell’avvocato ricorrente era stata respinta con sentenza confermata anche in appello.

La corte territoriale aveva infatti ritenuto che il giudice di primo grado non avesse affatto riconosciuto, neppure per implicito, la nullità della convenzione e la sua integrazione ex lege con gli onorari medi della tariffa, essendosi limitato a rilevare che nulla le parti avevano pattuito per l’ipotesi di revoca di mandato, ed avendo ritenuto applicabili, in tal caso, le disposizioni della tariffa professionale.

La vicenda è perciò, proseguita in Cassazione su ricorso formulato dal predetto difensore. Ma anche questa volta il ricorso è stato respinto.

Come anticipato con una prima convenzione le parti avevano concordato un compenso graduato sulla complessità delle singole controversie e rapportato all’esito dei singoli contenziosi, mentre, con successiva convenzione modificativa era stato stabilito,  che nel caso di soccombenza totale o parziale e di compensazione delle spese di lite, le competenze sarebbero state liquidate nei minimi tariffari di cui al D.M. n. 585 del 1994, in base al valore effettivo della causa, ancorato al risultato economico raggiunto in ciascun grado di lite.

Ove il giudizio avesse avuto esito positivo e le spese processuali sarebbero state poste a carico della controparte, il difensore avrebbe ottenuto l’importo liquidato, tenendo conto dell’attività effettivamente espletata.

La convenzione non contemplava, invece, alcun criterio di determinazione del compenso nel caso di cessazione anticipata del mandato.

Il Ministero, dopo aver revocato il mandato all’avvocato aveva, perciò, invocato l’applicazione dei minimi tariffari, sulla base della convenzione modificativa, ma il Tribunale, definendo l’opposizione ex art. 645 c.p.c. proposta dal Ministero avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dal ricorrente per il pagamento delle competenze maturate nei giudizi ancora pendenti, aveva riliquidato le spettanze, riducendo gli importi pretesi dal difensore in applicazione dei valori medi della tariffa.

Ed invero, dalla mera lettura della convenzione (…) risultava evidente come l’ipotesi di revoca dell’incarico professionale ex art. 2237 c.c. non fosse stata compiutamente disciplinata dalle parti – con riferimento, in particolare, all’entità del compenso e alla determinazione del valore della controversia – il giudice adito nel processo monitorio, aveva perciò ritenuto che essa perciò, dovesse perciò essere regolata dalle fonti integrative del contratto d’opera intellettuale (artt. 1374 e 2233 c.c. in relazione al D.M. n. 585 del 1994.

Ma in realtà, come sostenuto dalla corte d’appello, e prima ancora dal giudice di primo grado, “la nullità parziale e l’inserzione nell’accordo dei contenuti imposti dalla legge implicano la sussistenza di una specifica previsione di legge imperativa, che contempli clausole o prezzi destinati ad essere applicati incondizionatamente e ad imporsi in ogni caso alle parti”.

La decisione

“L’art. 1339 c.c. non è invocabile nell’ipotesi in cui non si prospetti la sostituzione di clausole contrattuali difformi rispetto a norme imperative di legge, ma solo l’integrazione di lacune della manifestazione della volontà negoziale, al fine, peraltro, di ottenere effetti che possono dipendere solo dalle pattuizioni delle parti” (Cass. 11264/1998; Cass. 13459/1992; Cass. 6422/1992).

In nessun caso, dunque, l’applicabilità della tariffa professionale per revoca del mandato-avrebbe potuto, dunque, determinare l’automatica cogenza e vincolatività dei parametri medi, tanto più che, per le prestazioni svolte integralmente nella vigenza della L. n. 794 del 1942, art. 24, e delle tariffe professionali (D.M. n. 585 del 1994, art. 4), il principio di inderogabilità era invocabile solo per i minimi tariffari (cfr., tra le tante, Cass. 8539/2018; Cass. 20269/2010; Cass. 287188/2008).

Non sussisteva – in definitiva – alcun giudicato sulla nullità della prima convenzione, né alcun vincolo per il giudice di merito quanto all’applicazione dei valori medi della tariffa, avendo la sentenza esclusivamente disposto che la quantificazione delle spettanze dovesse prescindere dai criteri fissati dalla convenzione per le cause definite e che occorresse tener conto dei parametri di cui al citato D.M. n. 585 del 1994, quale che fosse il risultato finale della liquidazione.

La redazione giuridica

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