La paziente sostiene di essere stata arbitrariamente sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio TSO e chiama in causa il Medico di Pronto soccorso e lo Psichiatra.
I Giudici di merito dichiarano la domanda improcedibile e anche la Cassazione rigetta (Cassazione civile, sez. III, 18/09/2024, n.25127).
La vicenda
La paziente cita in giudizio il Medico di PS dell’ospedale di Ancona e lo Psichiatra dell’ospedale di Torrette di Ancona. E ne chiede la condanna al risarcimento dei danni subiti per essere stata sottoposta arbitrariamente nel 2018 a un trattamento sanitario obbligatorio (TSO).
Il Tribunale dichiarava la domanda improcedibile perché volta a contestare la legittimità del trattamento sanitario obbligatorio, non più contestabile non essendo stata proposta a suo tempo l’impugnazione dinanzi al Giudice competente.
La Corte d’Appello di Ancona rigettava l’appello. I Giudici di secondo grado hanno ragionato nel senso che il trattamento sanitario obbligatorio TSO è un peculiare provvedimento, destinato a incidere su diritti soggettivi personalissimi, e per questo motivo una volta disposto è sottoposto alla convalida del Giudice Tutelare, il cui provvedimento è a sua volta impugnabile davanti al Tribunale in composizione collegiale. Il provvedimento, che disponeva il TSO, non era stato impugnato ai sensi dell’articolo 739 c.p.c. e, conseguentemente, non se ne poteva più contestare la legittimità.
TSO legittimo
Fatta questa premessa, la Corte d’Appello affermava che erano in ogni caso presenti tutti i presupposti per adottare legittimamente un provvedimento di TSO (atteso che la donna era giunta in ospedale avendo i suoi congiunti chiesto l’intervento del 118, in quanto temevano che la donna potesse tentare il suicidio). I sanitari intervenuti attestavano che si trovava in una condizione di agitazione psicomotoria tanto da attribuirle un codice rosso, si accertava che la stessa assumeva farmaci antidepressivi e ansiolitici da almeno due anni nonché presentava altri fattori di alterazione del normale equilibrio quali condotte anoressiche, instabilità emotiva e marcata impulsività, e recava ferite da taglio superficiali ai polsi.
La paziente si presentava inoltre molto aggressiva, cosicché le era consigliato di trattenersi in ospedale in osservazione. Giacché la paziente negava il suo consenso alla volontaria permanenza in ospedale, il medico di turno convocava lo psichiatra che, visitatala, riteneva opportuno che la stessa fosse trattenuta in ospedale anche contro la sua volontà, per cui il medico di pronto soccorso che l’aveva già visitata, firmava alle 16:30 la proposta di TSO.
Ergo, i Giudici di secondo grado concludevano che non fosse individuabile nessun comportamento illecito in capo ai medici, i quali avevano sottoposto la donna a trattamento sanitario obbligatorio fondato sui presupposti di legge, debitamente autorizzato dal sindaco, con provvedimento mai reclamato dinanzi al Giudice Tutelare.
L’intervento della Cassazione
Sostiene la ricorrente che, se è vero che la disapplicazione non può chiedersi quando il provvedimento si stabilizza per effetto dell’esito negativo delle impugnazioni, per contro, laddove le impugnazioni non siano proposte, il provvedimento non si stabilizzerebbe mai. La convalida costituirebbe un elemento costitutivo della fattispecie TSO, che nasce come provvedimento amministrativo del sindaco che si completa con la validazione del Giudice Tutelare. Sostiene che la convalida da parte del Giudice non è espressione dell’esito di un provvedimento impugnatorio ma è un elemento strutturale del provvedimento. Quindi, solamente del TSO impugnato con esito negativo risulta definitivamente accertata la liceità.
La ricorrente segnala, inoltre, che mancherebbe, ai fini della validità della richiesta di TSO, la dualità del controllo preliminare sulla necessità del trattamento da parte di due medici diversi, al fine di verificare l’appropriatezza della misura restrittiva disposta, mentre nel caso di specie la richiesta sarebbe stata compilata e firmata solo dal Medico di PS.
Le Cassazione rigetta complessivamente le censure.
Il trattamento sanitario obbligatorio
In relazione al TSO, è stato precisato di recente (509/2023 e 4000/2024) che:
- – il trattamento sanitario obbligatorio è un evento straordinario – finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente – che non deve essere considerato una misura di difesa sociale;
- – esso può essere legittimamente disposto solo dopo aver esperito ogni iniziativa concretamente possibile – sia pur compatibilmente con le condizioni cliniche di volta in volta accertate e certificate in cui versa il paziente ed ove queste lo rendano possibile – per ottenere il consenso del paziente ad un trattamento volontario;
- – si può intervenire con un trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale con prestazione delle cure in condizioni di degenza ospedaliera anche a prescindere dal consenso del paziente soltanto se sono contemporaneamente presenti tre condizioni: a) l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici. b) La mancata accettazione da parte dell’infermo degli interventi terapeutici proposti. c) L’esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Il procedimento è estremamente articolato, allo scopo di assicurare che il ricorso al TSO, che costituisce una misura eccezionale, sia circoscritto ai casi strettamente necessari e sia assistito da una serie di garanzie e controlli. Come descritto, il procedimento è attivato su impulso medico, si traduce nell’adozione di un provvedimento del Sindaco, il quale a sua volta, incidendo su diritti soggettivi, è sottoposto al controllo del Giudice Tutelare e alla eventuale, ulteriore verifica di esso a mezzo di impugnazione ad impulso della parte interessata o di chi per essa vi abbia interesse, col ricorso al Tribunale.
La possibilità di impugnazione del provvedimento amministrativo
Ciò posto, calandoci nel caso concreto, il non aver proposto l’impugnazione del provvedimento amministrativo adottato nei suoi confronti non precludeva alla donna la possibilità di proporre l’azione risarcitoria, stante l’autonomia della azione risarcitoria a tutela dei propri diritti soggettivi da quella impugnatoria del provvedimento.
Spettava al Giudice di merito accertare se la donna, in quella occasione, fosse comunque stata vittima di un comportamento illecito, in violazione di suoi diritti soggettivi, fonte per lei di danni risarcibili.
Tuttavia, se la mancata impugnazione del provvedimento non preclude l’azione civile per il risarcimento del danno ingiusto riportato, non ha però senso invocare la disapplicazione del provvedimento all’interno del giudizio per l’azione risarcitoria, tanto più che si può richiedere la disapplicazione solo in via incidentale e finché il provvedimento amministrativo spieghi i suoi effetti, mentre essa non può essere fondatamente invocata, in riferimento ad un provvedimento che ha una efficacia limitata nel tempo (nel caso di specie, di sole 48 ore), dopo che lo stesso ha esaurito da anni i suoi effetti, né tanto meno è possibile chiedere la disapplicazione, in via principale, di un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo.
Il ragionamento della Cassazione
Infondate, dunque, le censure della donna, la Cassazione svolge un interessante – e condivisibile – ragionamento.
I casi nei quali si fa ricorso al TSO, e con esso a eventuali misure di contenzione e alla somministrazione forzata di farmaci, sono ipotesi eccezionali, presidiate da numerose garanzie a tutela del paziente e caratterizzate dalla assoluta necessità e urgenza di intervenire a sua stessa tutela, per cui l’adozione immediata di tali misure, da un lato rientra nella scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 c.p. e 2045 c.c., dall’altro l’intervento medico ha un senso, in queste ipotesi eccezionali, proprio in quanto sia immeditato.
Diversamente ragionando, la misura “straordinaria” del TSO non avrebbe senso e perderebbe la funzione di preservare l’integrità del paziente e delle persone con le quali questi interagisce, se i Medici, che pur ne indicano la necessità assumendosi le relative responsabilità, non potessero adottare alcuna misura finché il Sindaco non abbia adottato l’ordinanza. Se si dovesse attendere l’adozione del provvedimento amministrativo del Sindaco, la misura sarebbe nella maggior parte dei casi inutile perché lo stato di “agitazione” verrebbe affrontato ad ore di distanza, durante le quali il paziente avrebbe potuto porre in essere anche comportamenti autolesionistici e pericolosi per gli altri che i medici hanno previsto e segnalato come tali.
La Cassazione, come detto, rigetta integralmente il ricorso della donna e la condanna alle spese del giudizio di secondo grado e di legittimità, per oltre 20mila euro.
Avv. Emanuela Foligno