La Corte Costituzionale boccia parzialmente l’art. 92 2° comma c.p.c. nella parte novellata dal dl 132/2014. Ecco che cosa hanno stabilito i giudici.

Con la sentenza n. 77/2018 la Consulta ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 92 del codice di procedura civile 2° comma.

Nello specifico, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

A sollevare la q.l.c. dell’ art. 92 del codice di procedura civile, comma 2, in riferimento agli artt. 3, 1° comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, è il Tribunale di Torino in funzione di giudice del lavoro. Nello specifico, relativamente al testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132/2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162/2014, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa.

Vale a dire l’”assoluta novità della questione trattata” e il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”.

La questione relativa all’ art. 92 del codice di procedura civile è stata sollevata in occasione di un giudizio civile.

Questo era stato promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa. Il tutto allo scopo di ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per l’attività svolta.

Analoga q.l.c. era stata sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro.

Quest’ultima era stata sollevata da una lavoratrice nel corso di una controversia riguardante l’impugnativa di un licenziamento.

La donna si era opposta nei confronti sia della società datrice che di altre società.

Questo “sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute”.

Ebbene, per la Consulta la questione è fondata. Riunendo i giudizi, la Corte ha prima affermato che “la regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus victori fissata dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizione dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 − prevede che ‘il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”.

Ciò significa che la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite.

Pertanto, secondo i giudici, è corretto “secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa”.

Tuttavia, questa non può essere una regola assoluta.

Scrivono i giudici che “l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge − con riguardo al tipo di procedimento − in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale”.

Pertanto, la Corte ha concluso che l’intervento riformatore operato dal legislatore sul secondo comma dell’art. 92 c.p.c. ha ristretto troppo il perimetro della deroga alla regola della soccombenza.

Ciò ha lasciato soltanto le due ipotesi tassative sopra indicate oltre a quella della soccombenza reciproca.

Questa tassatività, “violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa”.

E, conclude la Corte, “contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata”.

“La rigidità di tale tassatività – proseguono i giudici – ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti”.

Alla luce di tali evidenze, si dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizione dell’art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.

Ma non solo.

Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia ha posto qlc anche con riferimento alla posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro.

Ciò è avvenuto chiedendo di introdurre nell’ art. 92 del codice di procedura civile, 2 comma, un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite.

Compensazione “che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro”.

La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente − un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto.

Tuttavia, per la Consulta la questione è infondata.

E ciò in virtà del fatto che la qualità di “lavoratore” della parte che agisce, nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, “non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente”.

 

 

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