Il mutamento di organizzazione di vita della figlia che rescinde i rapporti con la casa familiare fa venire meno il diritto della assegnataria di beneficiarne

All’esito del giudizio d’appello, il ricorrente aveva ottenuto la revoca dell’assegnazione della casa familiare, di cui beneficiava l’ex coniuge per espressa disposizione del giudice della separazione.

Le risultanze istruttorie avevano portato la corte d’appello di Roma ad una diversa valutazione da quella fatta propria dal giudice di primo grado, dal momento che “era mutata l’organizzazione di vita della figlia, in termini di autonomia rispetto ai genitori, anche se non dal punto di vista economico, ma comunque tale da far ritenere reciso il legame con la casa familiare”.

Il ricorso per cassazione

A detta della madre la corte d’appello non aveva fatto corretta applicazione dci principi interpretativi che governano l’istituto dell’assegnazione della casa familiare, con riferimento ad un contesto nel quale il figlio maggiorenne, non autosufficiente, si iscriva ad una sede universitaria al di fuori della città dove si trovi la predetta abitazione, facendovi rientro solo raramente, quando gli impegni universitari – caratterizzati dalla frequenza obbligatoria e da periodi di tirocinio – glielo consentano.

Ma il ricorso non è stato accolto perché in realtà, era stato accertato che la figlia avesse ormai da tempo e del tutto consapevolmente reciso il legame con la casa familiare, mossa dalla possibilità di una comunanza vita con il fidanzato; e che da tale scelta era conseguita la decisione degli studi universitari in una località compatibile con il trasferimento da Roma a Rovigo da cui era derivata, la limitata presenza a Roma, presso l’abitazione della madre.

Ma non è tutto. Dall’esame dei testi era altresì emerso che la ragazza non avesse più rapporti con il padre né con i familiari (zii e nonni), residenti in case contigue o vicine a quella familiare, ben prima dell’inizio della frequentazione universitaria; da quando cioè si era trasferita a Rovigo per essere accolta nella casa della famiglia del proprio ragazzo.

Soltanto successivamente si era iscritta all’università di Padova, ove aveva conseguito la laurea triennale in scienze infermieristiche. Per tutto questo tempo, le occasioni di rientro a Roma erano state veramente minime, poiché limitate a pochi giorni durante le vacanze natalizie, pasquali ed estive.

Il ricorso formulato dalla madre della ragazza era inoltre infondato perché basato su una ormai superata interpretazione dell’art. 337-sexies c.c., secondo cui il diritto al godimento della casa familiare, da attribuirsi tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, viene meno nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva  more uxorio o contragga nuovo matrimonio.

La norma citata ha sostituito, dal 7 febbraio 2014, il precedente art. 155-quater cod. civ.

Ebbene, al riguardo la giurisprudenza della Cassazione ha già chiarito che la nozione di convivenza rilevante agli effetti dell’assegnazione della casa familiare comporta la stabile dimora del figlio presso l’abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi, e con esclusione, quindi, della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione, per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura, invece, un rapporto di mera ospitalità.

Deve, in altre parole, sussistere un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, benché la coabitazione possa non essere quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile.

In buona sostanza, “il ritorno, in una data frazione temporale, deve non solo avvenire con cadenza regolare, ma anche essere frequente, sicché non può affermarsi la convivenza del figlio che, in una data unità temporale, particolarmente estesa, risulti obiettivamente assente da casa, sia pure per esigenze lavorative o di studio, e ciò sebbene vi ritorni regolarmente non appena ne abbia la  possibilità, altrimenti il collegamento con l’abitazione diverrebbe troppo labile, sconfinando nel mero rapporto di ospitalità”.

Per tali motivi è stata confermata la sentenza pronunciata dalla corte d’appello capitolina, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.

La redazione giuridica

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