Cenestesi lavorativa e liquidazione del danno

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Si può definire cenestesi lavorativa quel danno patito da un soggetto che nel compiere le stesse attività che svolgeva prima di un evento sinistroso, ora è obbligato a sopportare maggiori sforzi e subire una più grave usura (Enciclopedia Treccani).

In pratica, è definibile come una variazione della condizione di benessere e la percezione di maggiore fatica da parte del soggetto leso nell’espletamento delle attività lavorative. Il danno è configurabile nella voce di danno non patrimoniale incidendo sulla capacità lavorativa generica e non dà origine ad un danno patrimoniale.

Al riguardo la Corte romana ha dato una efficace sintesi (C. App. Roma 7091/2022):

“Ogni danno alla salute, oltre alla sfera biologica e relazionale, può produrre ovviamente anche effetti sulla pregressa attività lavorativa del danneggiato:

1) precludendola del tutto, con conseguente soppressione totale del reddito.

2) costringendo il soggetto leso a mutare funzioni o qualifica, ovvero a ridurre la propria produttività, con conseguente riduzione del reddito.

Ma non sempre si verifica una reale e diretta riduzione del reddito o della suddetta produttività. Vi possono essere casi, come quello in commento, dove pur mantenendo la capacità lavorativa e quindi il reddito si verifica un altro tipo di conseguenza:

3) il soggetto leso, per svolgere le medesime attività che attendeva prima del sinistro, è costretto a sopportare sforzi maggiori ovvero a subire una maggiore usura fisica”.

I primi due casi costituiscono ipotesi di danno patrimoniale. Nella terza ipotesi, invece, la limitata validità del danneggiato non contrae il suo reddito ma sottopone la sua residua validità ad una maggiore usura (è questo il danno alla cenestesi lavorativa).

Stiamo dunque parlando di un’ipotesi di lesione alla salute (danno biologico), che però non dà origine a un autonomo risarcimento, ma deve essere valutata come una delle numerose componenti di quella valutazione complessiva, che è la valutazione del danno complessivo alla salute.

Come si calcola il risarcimento della lesione alla cenestesi lavorativa?

Siccome non è un danno che incide sulla capacità del danneggiato di produrre reddito, non potrà essere risarcita quale danno patrimoniale (lucro cessante), tantomeno come voce autonoma del danno non patrimoniale.

Il soggetto leso continua, infatti, a svolgere le stesse mansioni sfruttando, però, il proprio organismo in modo più intenso, con conseguente “usura” supplementare delle proprie energie di riserva.

Ragionando in tal senso stiamo, dunque, parlando di una circostanza che incide sul “bene salute”, e allora il risarcimento dovrebbe avvenire attraverso un incremento del risarcimento del danno biologico, in via di personalizzazione.

Nella sentenza n. 28988/2020 la Suprema Corte svolge un approfondimento dogmatico in merito alla distinzione fra danno alla capacità lavorativa generica e quello alla capacità lavorativa specifica.

La Corte è partita dalla premessa per cui il danno alla capacità lavorativa generica rientra nell’alveo di quello biologico” perché “non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia, in quanto modo di essere del soggetto, in una menomazione all’efficienza psicofisica (Cass. n. 1816 del 25 agosto 2014)”, consistente non già nell’impossibilità di continuare a svolgere un’attività lavorativa, ma nel doverlo fare con maggior fatica e/o più precoce usura. Ragion per cui tale pregiudizio attiene alla sfera del danno non patrimoniale, che “va valutato unitariamente”, e per il quale può prevedersi la personalizzazione del relativo risarcimento, solo ove ricorrano ben precisi presupposti.

Ma quali sono questi presupposti?

I “precisi presupposti” cui fa riferimento la Corte di Cassazione sono le conseguenze della menomazione” patita dal danneggiatonon sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto”, sì da giustificare “un aumento del risarcimento di base del danno biologico”.

Come si vede, è lo stesso principio che viene applicato per la cd. personalizzazione.

A tal fine non basta che la menomazione abbia “inciso, sic et simpliciter, su “aspetti dinamico relazionali”, quale è pure quello attinente alla generica capacità lavorativa del danneggiato, essendo necessario, invece, che “quella conseguenza sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al Giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (ex multis, n. 21939 del 21/09/2017; n. 23778 del 07/11/2014).

Stiamo quindi discorrendo di circostanze “specifiche ed eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, che devono rendere il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, essendo in tal caso consentito al Giudice, con motivazione analitica incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (n. 23778 del 07/11/2014; n. 24471 del 18/11/2014).

La nozione di incapacità lavorativa

Con le più recenti pronunzie di legittimità è stato rammentato che “la nozione di incapacità lavorativa generica fu elaborata dalla giurisprudenza in un’epoca in cui il danno biologico non aveva cittadinanza nell’ordinamento e l’unico danno ritenuto risarcibile era quello patrimoniale” con l’intento di “evitare il rigetto della domanda risarcitoria allorché le conseguenze lesive non avessero influito sul lavoro svolto dalla vittima ovvero nell’ipotesi in cui la vittima non svolgesse lavoro alcuno”.

Ma, elaborata la nozione di danno biologico, l’utilità della categoria è venuta meno, considerato che la sussistenza di un danno alla salute legittima il leso a domandare il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali a detta lesione connessi, nessuno escluso, e quindi anche la personalizzazione del ristoro del danno non patrimoniale, quando ne ricorrano le condizioni, nei termini anzidetti.

Ricapitolando:

  • la vittima conserva il reddito, ma lavora con maggior pena. È questo il danno da lesione della cenestesi lavorativa, e cioè la compromissione della sensazione di benessere connessa allo svolgimento del proprio lavoro. Ora, come detto, si applicherà la regola del risarcimento attraverso un appesantimento del danno biologico, in via di personalizzazione cioè, a meno che la maggiore usura, la maggiore penosità del lavoro non determinino l’eliminazione o la riduzione della capacità del danneggiato di produrre reddito, nel qual caso, evidentemente, il pregiudizio andrà risarcito come danno patrimoniale (Cass. n. 20312 del 2015).
  • la vittima perde in tutto o in parte il proprio reddito: non il lavoro, attenzione, ma il reddito, il che significa che non ne produce al momento e non sarà più in grado di produrne in futuro. Qui siamo evidentemente di fronte a un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito perduto.
  • la vittima perde il lavoro ma può svolgerne altri, compatibili con la propria formazione professionale. Anche questo è un danno patrimoniale, da liquidare tenendo conto e del periodo di inoccupazione e della verosimile differenza (se sussiste) tra reddito perduto e presumibile reddito futuro.
  • la vittima un lavoro non l’aveva e non potrà più averlo a causa della invalidità. Anche questo è un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito.

Il risarcimento del danno da cenestesi lavorativa

Per il risarcimento della “semplice” cenestesi lavorativa non potrà essere utilizzata la tabella relativa al solo danno biologico puro, in quanto tale conseguenza non è automatica al danno biologico.

Non potrà neppure essere liquidata attraverso la tabella del danno morale perché è evidente che si tratta di un aspetto che riguarda la sfera biologica (di competenza medico legale) e il Legislatore ha chiaramente e specificamente dedicato tale tabella al solo danno morale, ontologicamente differente, come noto, da quello biologico.

Ergo, l’unica possibilità è quella che venga equitativamente valutata dal Giudice, a prescindere dalle predette due tabelle, secondo la facoltà prevista dall’art. 138 C.d.A., come confermato anche dalla giurisprudenza (n.35663/23; 13726/22; 17931/19; 17411/19; 12572/18; 20312/15).

A questo punto non pare fallace l’impostazione dogmatica che vorrebbe limitare la c.d. personalizzazione solo ad eventi eccezionali, dovendosi concretamente giustificare l’attività equitativa e suppletiva del Giudice in presenza di aspetti certo peculiari, ma non straordinari?

Avv. Emanuela Foligno

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