Corte assise appello Roma, 06/10/2016, (ud. 18/07/2016, dep.06/10/2016), n. 41

Il fatto è un noto caso mediatico. L’inspiegabile morte di un giovane ragazzo, imputato per detenzione e spaccio di stupefacenti, in stato di detenzione cautelare. La notizia ha fatto scalpore tra i media, le televisioni nazionali e l’opinione pubblica.
Stando alle prime indagini, il giovane sarebbe morto anche a seguito delle violente percosse subite dal personale carcerario.
Imputati, nello stesso procedimento, anche quattro medici dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma, per non aver diagnosticato in tempo la patologia in atto e aver dunque operato la terapia necessaria a salvargli la vita.
All’esito del procedimento bis, riaperto in grado di appello dinanzi alla Corte d‘Assise d’Appello di Roma, tutti gli imputati sono stati assolti, non essendo dimostrato il collegamento eziologico tra la condotta omessa e l’evento mortale.
Ma capiamo bene perché.
Più volte la Corte di Cassazione ha chiarito che al fine di individuare quale sia la tesi affidabile sulla causa della morte il Giudice deve valutare: l’autorità scientifica dell’esperto; l’affidabilità delle basi, degli enunciati e dei postulati scientifici, su cui quest’ultimo ha fondato la sua decisione, senza omettere di verificare che essi trovino comune accettazione da parte della comunità scientifica; la sussistenza di comprovati e documentati elementi fattuali, cui siano stati correttamente applicati i criteri scientifici e metodi di indagine non certo nuovi e sperimentali; la diversa posizione processuale dei consulenti di parte rispetto ai periti, essendo i primi, a differenza degli altri, chiamati a prestare la loro opera nel solo interesse della parte che li ha nominati, senza assunzione, quindi, dell’impegno di obiettività previsto, per i soli periti, dall’ari. 226, c.p.p.
Ebbene, all’esito delle risultanze dibattimentali il Collegio giudicante aveva ritenuto di individuare la causa della morte del ragazzo nella c.d. “sindrome da inanizione” o “lesività da privazione di cibo e bevande”.
Invero, il decesso sarebbe dipeso da una grave alterazione dei processi metabolici, causata da un’insufficiente alimentazione e idratazione già iniziata prima dell’arresto, alla quale si aggiungevano le numerose patologie di cui il paziente era affetto (epilessia, tossicodipendenza e riferito morbo celiaco). Lo stress dovuto ai dolori causati dalle lesioni lombo-sacrali, che ne avevano determinato il ricovero presso la struttura protetta dell’Ospedale Sandro Pertini, e il suo “quasi” digiuno di protesta dinanzi a simili accadimenti avrebbero contribuito ad aggravarne lo stato di deperimento organico già in atto.
In punto di responsabilità medica va premesso che l’ultima innovazione legislativa (c.d. legge Balduzzi) esonera da responsabilità il terapeuta, in caso di colpa lieve, quando egli si sia attenuto ad accreditate linee guida o ad affidabili pratiche terapeutiche.
“Ciò accade qualora il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadrando correttamente il caso nelle sue linee generali, e tuttavia, nel concreto trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale ipotesi la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore sia non lieve.
La “colpa lieve”, viene anche in rilievo qualora, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determinata strategia, le peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d’azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria.
In sostanza, nella logica della novella, il professionista che inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali con riguardo ad una patologia, e che, tuttavia, non persegua correttamente l’adeguamento delle direttive allo specifico contesto o non scorga la necessità di disattendere del tutto le istruzioni usuali per perseguire una diversa strategia che governi efficacemente i rischi connessi al quadro d’insieme, sarà censurabile, in ambito penale, solo quando l’acritica applicazione della strategia ordinaria riveli un errore non lieve (cfr. tra le altre Sez. 4, Sentenza n. 47289 del 2014)”.
Nel caso di specie, invero, gli imputati avrebbero, colposamente, omesso di diagnosticare la sindrome da inanizione di cui il paziente era affetto, di inquadrare il caso nelle sue linee generali e, conseguentemente, di attuare i presidi terapeutici necessari.
“E, infatti, in base alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di colpa professionale ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause (Sez. 4, Sentenza n. 30991 del 06/02/2015 Ud. (dep. 16/0712015) Rv. 264315)”.
Ma tutto ciò non basta !
Le difese avevano peraltro eccepito che il paziente era “di difficile gestione” e che aveva, più volte, rifiutato le visite, le cure e gli esami propostigli.
Come avrebbero potuto questi ultimi, dunque, ove diagnosticata correttamente la patologia, proporgli le giuste terapie e salvargli la vita?
“Il consenso al trattamento sanitario – affermano i giudici della Corte d’assise di Roma -, che trova fondamento nell’art. 32 della Costituzione, richiede una corretta, completa e analitica informazione da parte del medico e così specularmente la efficacia del dissenso presuppone una idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e sulle eventuali alternative diagnostico terapeutiche. La Corte di Cassazione ha, infatti, affermato il principio (cfr. C. Cass. Sez. 4 ud 17.1.2014 sentenza n. 100/2014) per cui “in tema di colpa medica, il rifiuto di cure mediche consiste nel consapevole e volontario comportamento del paziente, il quale manifesti in forma espressa, senza possibilità di fraintendimenti, la deliberata e informata scelta di sottrarsi al trattamento medico. Consapevolezza che può ritenersi sussistente solo ove le sue condizioni di salute gli siano state rappresentate per quel che effettivamente sono, quantomeno sotto il profilo della loro gravità”.
Ma perché il nostro ordinamento prevede dei parametri così rigidi in tema di accertamento della responsabilità?
L’individuazione del collegamento eziologico tra condotta ed evento per l’affermazione della responsabilità penale comporta una vera e propria trasposizione dell’attività d’indagine dal diritto penale sostanziale al diritto processuale, privilegiando la ricerca della prova e della valutazione del fatto anche attraverso l’utilizzo di saperi tecnico-scientifici.
Tale attività si riverbera, inevitabilmente, sulla scelta dello strumento processuale utilizzato e impone al tempo stesso di preferire una ricostruzione della verità giudiziaria il più possibile vicina alla verità storica, anche a scapito delle esigenze di economia processuale oggi incombenti più che mai.
È noto, peraltro, come nel processo penale viga la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”; formula di accertamento più rigida rispetto al canone dettato in materia di responsabilità civile, quella cioè della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”» (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581).
La prima regola, a mio parere, va estratta in via interpretativa dai principi che la implicano; ma nessuno di questi impone di formularla in modo rigido e assoluto. Si dovrebbe piuttosto considerare l’accertamento della responsabilità penale così inteso, come una regola moderatamente disponibile, tale da ammettere che il giudice possa indagare in concreto e decidere secondo Giustizia.

Avv. Sabrina Caporale

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