leggi qui la prima parte

Poi ci sono le criptovalute (appunto anonime), come fu E-Gold: antesignana dei Bitcoin che fu usata proprio per traffici illegali ed il cui fondatore fu poi arrestato.
I citati Bitcoin, ma anche altre valute come Litecoin, Peercoin oppure il sistema Ripple, sono tutte forme di pagamento virtuale più o meno anonime, sempre più accettate dai privati e dai negozi, sia on-line che off-line. Esiste addirittura un portale, Localbitocoins, che permette di acquistare Bitcoin in contanti, semplicemente incontrando un venditore che, in cambio della somma in valuta ordinaria, accredita il corrispettivo in Bitcoin sul proprio “Wallet”, con la possibilità di spenderli poi in modo anonimo. Per aprire un portafoglio (Wallet) in Bitcoin è necessario operare su piattaforme on-line: Coinbase è la più grande e diffusa e probabilmente anche la più sicura.

L’acquisto di Bitcoin avviene direttamente da un privato che già ne possiede oppure su piattaforme come Coinbase, o Bitstamp, pagandolo con normali valute. Il secondo mezzo per ottenerli è il “mining”, ossia mettere una parte della potenza di calcolo del proprio computer a disposizione della Rete che gestisce le transazioni. In cambio, periodicamente, si ricevono Bitcoin in premio.

Proprio su questa rete di potenza di calcolo, si basa la tecnologia alla base delle criptovalute, che garantisce la tracciabilità di ogni passaggio di mano della moneta. Si chiama “blockchain” (catena a blocchi) e l’italiana Reply, società che implementa questa tecnologia, la definisce come <<registro transnazionale sicuro, condiviso da tutte le parti che operano all’interno di una data rete distribuita di computer. Registra e archivia tutte le transazioni che avvengono all’interno della rete, eliminando in definitiva la necessità di terze parti “fidate”>>.
In pratica la sua forza si basa sulla sua natura distribuita: ogni nodo del network svolge un ruolo nella verifica delle informazioni, inviandole al successivo nodo, in una catena composta da blocchi. Il sistema garantisce l’affidabilità crittografata e la provenienza di ogni transazione, senza la necessità di un “garante” accentrato e terzo (come può essere una banca, un’Istituzione o un pubblico ufficiale), che ne certifichi la validità, ma anzi, il controllo avviene diffusamente da tutti gli utenti presenti (tramite funzioni di algoritmo). In Italia, nodo nevralgico di tale attività è il Blockchainlab, che ne studia ed implementa l’applicazione su altri sistemi, sfruttando il punto forte della tecnologia: la scarsità digitale. Il sistema infatti permette per la prima volta di introdurre questo concetto economico nel mondo virtuale.

Da questa tecnologia è nata poi l’evoluzione della moneta virtuale: Ethereum, ossia la piattaforma lanciata a fine 2015, destinata a rivoluzionare il mondo delle transazioni. Essa è piattaforma decentralizzata (blockchain) per la creazione e pubblicazione peer-to-peer di contratti intelligenti (smart contracts) creati in un linguaggio di programmazione Turing-completo.

Per poter girare sulla rete P2P, i contratti di Ethereum “pagano” l’utilizzo della sua potenza computazionale tramite una unità di conto, detta Ether, che funge sia da criptovaluta che da elemento di funzionamento. Al contrario delle normali criptovalute, Ethereum non è solo un network per lo scambio di valore monetario, ma una rete per far girare contratti “smart”, basati sulla tecnologia Ethereum appunto.
Gli Smart Contracts, sono protocolli per computer che facilitano, verificano, o fanno rispettare la negoziazione o l’esecuzione di un contratto, o che evitano il bisogno di una clausola contrattuale, simulandone la logica. Con essi, molti tipi di clausole contrattuali potrebbero quindi essere resi parzialmente o integralmente automatizzati, auto-ottemperanti, o entrambe le cose. Essi aspirano a ridurre i costi di transazione associati alla contrattazione, assicurandone al contempo l’ottemperanza, in modo “forzoso” (automatico).
Questi contratti computazionali potrebbero essere utilizzati in maniera sicura per eseguire una vasta gamma di operazioni, fra cui sistemi elettorali, mercati finanziari, fondi in crowdfunding, proprietà intellettuale e molto altro.

Ultima arrivata è l’italiana Merkur.Io, che con un approccio “egalitario” fra utenti e speculatori (nella distribuzione ed accesso al codice blockchain), ha sviluppato la propria criptovaluta allo scopo di portare queste forme di scambio nel terzo mondo, proponendo una convertibilità (e qui sta la novità) anche in materie prime.
Sulla questione dell’identità digitale letta in chiave etica, c’è poi il progetto di Bitnation, che mira a riconoscere identità e diritti ai rifugiati, fornendo loro atti di proprietà basati sulla tecnologia blockchain.

E sarà proprio in tema di diritti e passaggi di proprietà che le applicazioni di questa tecnologia saranno potenzialmente rivoluzionarie, così come lo saranno tutte le attività che passeranno per Internet of Things, dove la blockchain è strumento prezioso per certificare l’attendibilità delle informazioni trasmesse da oggetti e sensori. Professioni come Notai, Commercialisti, Società di revisione, Enti certificatori e controllori accentrati in genere, potrebbero essere completamente rivoluzionate (se non spazzate via), da questo protocollo.

Di virtuale infine inizia ad esserci anche la Borsa valute promossa da Borsa Italiana, per gestire con un portafoglio digitale le proprie speculazioni azionarie. Non virtuali, ma comunque concettualmente “immateriali” – o comunque slegati dai convenzionali modelli di riferimento -, sono invece gli ETF (Exchange Traded Fund), ossia fondi d’investimento a gestione passiva, quotati e indicizzati in base al mercato di riferimento, su cui una emergente italiana del “Fintech” (la finanza applicata alle nuove tecnologie), Moneyfarm, sta puntando. Essi sono, proprio come il principio del P2P lending, frazionabili e quindi il rischio viene spalmato.

Relativamente alla moneta virtuale ci sono dunque alcune considerazioni da fare: si tratta di un mercato fortemente soggetto a fluttuazioni e speculazioni. Potrebbe continuare a crescere di valore, come sgonfiarsi velocemente come fece il mondo parallelo (e il “Linden”, la moneta parallela) di (fu) Second Life.
Di sicuro è uno strumento sicuro dal punto di vista della vulnerabilità (il sistema blockchain non è mai – ancora – stato compromesso), ma altrettanto oscuro quanto all’identità.

A parere di chi scrive infatti, Bitcoin e altre realtà virtuali saranno destinate a fare scuola, ma alla lunga a fallire, lasciando la strada ad altro. Il problema sta nella fiducia (nel “trust”, come si suol chiamare in terminologia 4.0): i passaggi sono sicuri, ma la moneta rimane anonima. Anonimo l’emittente, anonimi gli utenti e non regolamentate le piattaforme di scambio. Inoltre non vi è una vera convertibilità: non si possono (ancora) acquistare preziosi in Bitcoin od usarla off-line. E ci sono dei potenti competitor che ne stanno limitando l’uso sul mobile.
L’identità degli operatori (siano essi utenti, che intermediari), come l’identità e la trasparenza degli emettitori, stanno alla base della fiducia nelle transazioni. E senza fiducia (che è garanzia, certezza del diritto, sicurezza nella transazione e identità), non c’è futuro.

Altri problemi dei Bitcoin sono le transazioni massime dei blocchi ferme a 7 al secondo (1 megabyte), limite che ad oggi non è possibile superare, e che con grossi volumi di utenti, crea un “imbuto” di transazioni difficilmente gestibile e che può causare una saturazione computazionale. Poi c’è il sistema off-line: Bitcoin per ora gira solo su piattaforme on-line e rimane concettualmente una valuta in appoggio su valute reali (quelle con cui, appunto, si pagano i Bitcoin). È sì convertibile sulle piattaforme, ma sono ancora pochi i negozi dove si può pagare direttamente con la criptovaluta. Se questo metodo si distribuisse su larga scala, 7 transazioni al secondo non sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno di transazioni dei consumatori.
Proprio in considerazione di ciò, è stata sviluppata da Mike Hearn (ex Google) la concorrente e parallela Bitcoin XT, ossia una vera e propria alternativa con una propria blockchain, che a differenza dei Bitcoin sarebbe composta da blocchi via via sempre più grandi (ma con un “mining” più accentrato).

Le criptovalute, le monete virtuali, sono però in fondo una moneta privata. Essa nasce nel momento in cui un individuo decide di contrassegnare un tondello di un metallo con un sigillo che garantisce il peso del pezzo e la qualità della lega. Il consociato è libero o meno di accettare la garanzia apprestata dal sigillo e di accordare o meno la sua fiducia. Se lo fa, è dispensato dal ricorrere ogni volta, in occasione di ogni pagamento, alla verifica del titolo e del peso. Questione di garanzia, questione di fiducia.

Creare una moneta privata è in fondo semplice: si forgia/stampa/emette un titolo (una moneta, una cartamoneta, un protocollo), si stabilisce un’unità di misura divisibile, si convince una massa critica e trasversale di utenti ad utilizzare questa convenzione per i propri scambi.

Alcuni esempi pratici sono i “LETS” britannici (Local Exchange Trading System), il “Wir” svizzero od i nostrani “Sardex”, i “Luigini” del Principato di Seborga o i “SIMEC” (simboli econometrici di valore indotto), inventati dal giurista Prof. Giacinto Auriti ed introdotti a Guardiagrele (CH). I SIMEC erano in realtà un esperimento (riuscito), volto a provare la tesi che i cittadini possono per convenzione creare il valore della moneta, senza alcun intervento né dello Stato né del sistema bancario. L’obiettivo era quello di sostituire alla sovranità delle Banche centrali la proprietà della moneta, quale prerogativa dello Stato, in favore dei singoli cittadini. Il titolo recava infatti la dicitura “di esclusiva proprietà del portatore”.

Progetti simili sono quelli della “Sterlina di Man” o dell’“Ithaca HOURs”, una valuta locale, sostenuta non dall’oro, né da un valore convenzionale, ma da ore di lavoro. Passare un’ora a dipingere uno steccato ad Ithaca, Stato di New York, equivale a una banconota da un’”Ora”, data dal proprietario. Con la banconota si possono poi comprare altre attività.
Ma esempi più banali possono essere anche i buoni pasto, vera e propria moneta alternativa, e le carte fedeltà.
Il denaro moderno in fondo è sostenuto solo da una promessa, non da un metallo. Quindi il problema è la garanzia, dunque la convenzione fra i consociati.

«Qualunque cosa può fungere da valuta e in definitiva basta che possieda le caratteristiche che la gente domanda: trasferibile, fungibile, facilmente divisibile, ma anche ragionevolmente scarsa», ha detto qualche tempo fa John Matonis, direttore del blog “The Monetary Future“.

In quest’ottica qualcuno sta già guardando proprio al futuro.
A fine 2012 Apple ha vietato l’ingresso alla sua piattaforma alle App che gestiscono ed accettano Bitcoin. Con Passbook, Apple ha lanciato un suo modello di pagamenti mobili su iOS. Mossa strategica: infatti più di un quarto delle transazioni di moneta virtuale avvengono via mobile.
E come accennato più su, proprio Google ha sviluppato Google Wallet, che non è ancora esploso proprio perché nasce solo per uso su mobile. Lungimirante, visto che ormai più del 50% del traffico internet avviene da smartphone. Google ha un’altra strategia e non ha bloccato il Bitcoin, anzi voci (datate) dicono sia pronto ad aprire le transazioni con questa valuta, esattamente come E-bay. Di sicuro vi sarà una forte speculazione al riguardo..

Questa è la tendenza: la carta moneta non esisterà più e i soldi saranno App su un display. L’identità sarà garantita. Come? Proprio dagli utenti, anzi proprio dalle App.
Se si fa due più due infatti, ciò che connette tutto il filo rosso sin qui tracciato è proprio il telecomando della nostra vita: lo smartphone. Da questo nodo graviterà tutto. Ed ovviamente gli “Internet Giants” lo sanno e lo sanno meglio quelli fra di loro che già vi sono dentro, specie Android ed iOS. Già esistono piattaforme come Google Play e iTunes e stanno entrambe implementando i propri servizi a 360°.

Ma il futuro passa anche attraverso a quelle che saranno le evoluzioni delle odierne (e innovative) chat-bot, ossia le piattaforme chat dove gli utenti interagiscono col software per avere dei servizi. L’App Telegram è stata la prima ad introdurli (per farsi inviare foto o frasi scherzose a “random”) e a parere dello scrivente, questa tecnologia avrà un ruolo da protagonista negli scambi commerciali e nelle transazioni, specie se abbinata a Computational Language, Big Data, IoT, Blockchain e Smart Contracts.

Ma in fila ci sono tanti altri colossi. Dalle comunicazioni VoIP ai contenuti in streaming. Ognuno con il proprio catalogo di prodotti, servizi, coupon, sconti, promozioni, punti premio. Che pian piano diverranno fruibili solo con l’account di questa o quella compagnia. O pagabili solo con la moneta di questa o quella compagnia.
E poi ci sono potenze come Linux Foundation che vogliono creare dei concorrenti oltre a quelli già presenti: il progetto coinvolgerebbe molti big del Tech e della finanza (il Fintech appunto). Da R3 a Cisco, da IBM a Intel fino a JP Morgan e London Stock Exchange Group. Così si punta a modificare o rivoluzionare l’attuale panorama degli scambi monetari, sia on-line che, soprattutto, off-line, grazie alla tecnologia blockchain.

Non c’è da stupirsi quindi che siano le grandi Corporation a tessere le fila degli scenari mondiali. Se già la storia ci ha insegnato che dagli anni ’80 in poi la politica ha contato sempre di meno, cedendo terreno al mondo della finanza (e quindi delle banche), oggi l’ago della bussola si sposta verso l’imprenditoria 4.0, che di soldi ne muove molti più delle banche.
Non più quindi Trilateral, Bilderberg, Skull and Bones e Bohemian Grove, ma oramai ci riunisce in summit che non hanno nemmeno un nome, dove CEOs e premi Nobel incontrano surfisti, cantanti e attivisti, qualche banchiere, ma soprattutto nessun politico – perché i politici amministrano, ma non decidono -. Summit organizzati dai “Giants” per discutere (ed orientare) non si sa bene su cosa, ma si può immaginare.
E forse la cosa va letta anche con le riunioni dell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names e Numbers), che detiene le 7 chiavi che governano internet, e che, nonostante il Web nasca al CERN di Ginevra e volutamente non sia mai stato brevettato, è una società privata americana. Essa vuole essere trasparente, ma nasce pur sempre da una costola del Dipartimento della Difesa americano e nato sotto l’egida del Dipartimento del Commercio.

Come si dice: connect the dots!

Ecco dunque lo scenario futuro (mera ipotesi di chi scrive): non più una moneta pubblica, ma tante forme di monete “private” virtuali, con un loro mercato (piattaforme) di scambio. In questo scenario ci sarà però un piccolo, insignificante risvolto.

Le compagnie che gestiranno i nostri soldi (ossia che offriranno la piattaforma sulla quale i digital money fluttueranno immaterialmente), saranno anche quelle che emetteranno queste monete virtuali e ci venderanno i servizi e prodotti da pagare con quei soldi, o saranno gli intermediari della transazione.
Saranno anche i soggetti che dovranno garantire la trasparenza e correttezza della transazione, grazie al blockchain, al mining e agli smartcontract, ma dovranno garantire anche l’identità degli utenti (forse grazie a impronte biometriche, tracciamento GPS e face recognition?!).
Potrebbero essere addirittura i nostri datori di lavoro, diretti o indiretti.
Di più, saranno anche quelle che incamereranno le commissioni e gestiranno i prezzi (il costo della vita), come già fa Apple su Apple Store.
Ancora di più, saranno anche quelle che immagazzineranno tutti i dati delle nostre transazioni e abitudini (Big data) e ci tracceranno, servendoci quelle offerte pubblicitarie profilate su di noi. Forse addirittura riusciranno, grazie al Neuromarketing e a tanti piccoli ed utili ritrovati tecnologici, ad influire sulle nostre scelte commerciali (non che tutto ciò non venga già fatto).

Ecco dunque le nuove banche: le i-Bank, o meglio, le Bit-Bank!

Come ci si potrebbe sentire se nel mondo off-line dovessimo andare in banca per comprare prodotti e servizi (irrinunciabili e di prima necessità) che vende solo la banca, suggeritici dalla banca, pagando la banca con soldi della banca, messi a disposizione dalla banca, la quale traccia ogni nostra transazione e abitudine?!

Ovviamente il primo problema che emerge attiene al conflitto di interesse, il secondo all’abuso di posizione dominante e poi, in scia, privacy e tutta una schiera di diritti più o meno fondamentali. Ma vanno considerate anche sicurezza e vulnerabilità dei sistemi (che verosimilmente saranno in Cloud e sfrutteranno IoT).

Se guardiamo ai modelli di business delle più grandi piattaforme commerciali, notiamo che sono impostati sulla vendita diretta o sulla gratuità contro profilazione (a sua volta finalizzata alla pubblicità per indurre all’acquisto). Se incrociamo questo dato su un modello di diffusione della moneta che si basa sulla Credit History e sul Credit Score, non può sfuggirci che chi è debitore è controllabile (e influenzabile). Specie coi numeri.

Questo comporta da un lato che è necessaria una normativa di settore (ma globalmente condivisa: unica legge per unico web!), che regoli queste nuove tecnologie e questi intrecci, tutelando l’utente , garantendo che gli operatori non diventino dei leviatani, ma al contempo non soffocando lo sviluppo di nuove implementazioni e nuovi business.
Dall’altro lato è necessaria una consapevolezza degli attori di questo sistema: se è vero che dopotutto ogni sistema di scambio si basa sulla fiducia, allora il modo migliore per indurla è la trasparenza (cui fa seguito una prova di correttezza e buona fede) da parte di quei “Giganti”, che legittimamente mirano al profitto.

Così, senza aspettare le lungaggini del sistema legale, le società del settore, dovrebbero attuare una politica di auto-regolamentazione stringente e condivisa (magari in associazioni di categoria), che detti le linee guida e stabilisca i limiti entro i quali operare, ma soprattutto garantisca la trasparenza delle loro attività.

Se il futuro dell’economia sarà fatto di monete virtuali (come qui si preconizza), forse in parallelo il futuro della giurisprudenza sarà fatto da convenzioni commerciali spontanee, che come in una sorta di Lex Mercatoria digitale, appaia prima nel mercato e venga poi recepita e riadattata nelle sedi istituzionali.

Digital Law for Digital money.
World Wide Law for a World Wide Way (to consume).

Avv. Gianluigi M. Riva

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