L’infermiere professionale non può considerarsi “mero esecutore materiale delle prescrizioni impartite dal personale medico”, possedendo professionalità e competenze specifiche

La  vicenda

A seguito del decesso di un paziente avvenuto il 30 agosto 1998 presso l’Ospedale di Carrara i congiunti della vittima avevano agito in giudizio contro l’Asl e un medico ospedaliero per sentirli condannare, in solido tra loro, al risarcimento di tutti i danni patiti.

Il paziente era stato ricoverato per un ictus cerebrale, ma il decesso si era verificato a causa di un’iniezione di cloruro di potassio praticatagli da una infermiera, in servizio presso la predetta struttura, su prescrizione del medico convenuto in giudizio.

Quest’ultimo, dopo aver contestato la fondatezza della domanda attorea, chiese ed ottenne di chiamare in causa l’infermiera allegandone l’esclusiva responsabilità per la morte del paziente avendo ella materialmente praticato l’iniezione letale.

All’esito del processo di primo grado il Tribunale di Massa pronunciò sentenza di condanna nei confronti del medico e dell’Asl al risarcimento di tutti i danni richiesti dagli attori ( 137.200,77 euro furono riconosciuti alla moglie; 98.854,37, 100.159,11 euro e ancora 98.010,81 euro, rispettivamente ai tre figli).

Il Tribunale di Massa ritenne responsabile il medico per aver prescritto l’iniezione endovenosa di cloruro di potassio “erroneamente… senza alcuna diluizione”, ed invero, soltanto dopo la morte del paziente aveva corretto la cartella clinica indicando la necessità della diluizione. Escluse, invece, la responsabilità della infermiera “in quanto mera esecutrice della prescrizione medica”.

Nel 2013 fu emessa la sentenza di secondo grado, che riconobbe invece, l’infermiera “corresponsabile, unitamente agli altri due convenuti” della morte del paziente, condannandola, in solido con essi, al risarcimento del danno patito dagli attori “nelle misure stabilite dalla sentenza” di primo grado.

La Corte d’appello di Genova, in generale, ritenne “l’esistenza di un dovere professionale in capo all’infermiere professionale” consistente nel saper valutare la correttezza delle terapie che il medico gli ordina.

Nel caso in esame doveva ritenersi appartenere al bagaglio professionale della convenuta, la quale aveva frequentato un percorso formativo che comprendeva 30 ore di farmacologia e 140+190 ore di tecniche infermieristiche, “la conoscenza della portata letale di una iniezione di cloruro di potassio non diluito”.

L’autonoma possibilità di delibazione dell’infermiere professionista

Vi era poi un altro profilo. Quello relativo alla possibilità, per l’esecutore, di disattendere o sindacare prescrizioni terapeutiche impartitegli dal personale medico gerarchicamente superiore”, ovvero “se, al contrario, l’infermiere professionale sia “obbligato” ad eseguire una prestazione medica errata”.

Ebbene, al riguardo la Corte territoriale aveva argomentato osservando, anzitutto, che secondo il D.P.R. n. 225 del 1974, art. 2 (recante il mansionario generale dell’infermiere), tra le attribuzioni dell’infermiere professionale ricomprende anche “la somministrazione dei farmaci prescritti” là dove, poi, il D.M. n. 739 del 1994, art. 1, comma 3, lett. d. (recante il regolamento sull’individuazione della figura e del relativo professionale dell’infermiere), stabilisce che l’infermiere “garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche”.

Per la Corte di merito, dunque, in capo all’infermiere residua una “una possibilità di delibazione” rispetto alla prescrizione medica “di per se stessa erronea o incompleta”, con “l’onere di adeguarne l’esecuzione ai protocolli medici vigenti e che egli abbia la possibilità di conoscere”.

E in ogni caso, a prescindere da “tale previsione regolamentare”, l’infermiere professionale non può considerarsi “mero esecutore materiale delle prescrizioni impartite dal personale medico”, possedendo una professionalità e competenza che “gli consente, se del caso, di chiedere, quantomeno, conferma della esattezza di una determinata procedura terapeutica, tanto più se essa è di una erroneità e pericolosità talmente clamorose ed evidenti da essere immediatamente percepibile, come tale, anche dal personale paramedico”.

Pertanto, nella vicenda in esame la corresponsabilità dell’infermiere professionale, risiedeva nel non aver rilevato – pur avendone la possibilità cognitiva e giuridica – l’inesattezza o la grave incompletezza della procedura terapeutica richiestale da medico, senza che ciò potesse escludere la responsabilità di quest’ultimo “sul quale gravava, in ogni caso, l’onere di impartire una prescrizione terapeutica precisa e completa tanto più in presenza di effetti letali quali sono quelli che, inesorabilmente, discendono dall’introduzione improvvisa di cloruro di potassio non diluito nell’organismo”.

Il ricorso per Cassazione

La decisione è stata confermata dai giudici della Suprema Corte di Cassazione, a detta dei quali, la corte d’appello aveva correttamente rilevato come “nel provvedere alla somministrazione farmacologica, l’infermiere, lungi dall’esaurire il proprio apporto nella mera esecuzione materiale della terapia prescritta, proprio perchè in possesso di professionalità e competenze specifiche, non può esimersi, ove si presti il caso, dalla opportuna interlocuzione con lo stesso medico al fine di ricevere conferma della correttezza della prescrizione”.

Sarà, poi, l’indagine di fatto, rimessa alla delibazione del giudice del merito, a riconoscere quale debba essere, nel caso contingente, la portata effettiva del comportamento esigibile dall’infermiere professionale in relazione ai contenuti della terapia medica prescritta ed alle cognizioni pratico-scientifiche possedute in rapporto ad essa.

Nel caso di specie, – come giustamente osservato dai giudici di merito – ella avrebbe dovuto essere in grado quantomeno di chiedere al medico conferma di una “procedura terapeutica” (quella di somministrazione diretta di cloruro di potassio senza diluizione in fisiologica) che si presentava “di una erroneità e pericolosità talmente clamorose ed evidenti da essere immediatamente percepibile, come tale, anche dal personale paramedico” e ciò, a maggior ragione, poiché il medico aveva omesso di impartire una prescrizione terapeutica precisa e completa, tanto più in presenza di effetti letali”, come quelli derivanti “dall’introduzione improvvisa di cloruro di potassio non diluito nell’organismo”.

La redazione giuridica

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