Comportamento concludente nell’estinzione del rapporto di lavoro: è da escludersi la reintegrazione e l’indennità sostitutiva (Cassazione civile, sez. VI, dep. 27/04/2022, n.13203).

Comportamento concludente e relativi duplici effetti: estinzione del rapporto di lavoro e impossibilità della reintegrazione.

La Corte d’Appello di Cagliari, in seguito a rinvio disposto dalla S.C. con la sentenza a Sezioni unite n. 12568 del 2018, ha annullato il licenziamento intimato, condannando la società bancaria “al risarcimento del danno, in misura pari alle retribuzioni globali di fatto che sarebbero spettate dalla data del licenziamento fino alla data del collocamento in quiescenza.”

I Giudici del rinvio, in sintesi, dopo avere premesso che il raggiungimento dell’età pensionabile non determina l’automatica estinzione del rapporto di lavoro, hanno ritenuto “concretizzato un fatto ulteriore, che ha determinato l’estinzione del rapporto di lavoro e resa impossibile la reintegrazione, anche a seguito di sentenza di annullamento. Hanno rilevato, cioè, che il lavoratore è stato collocato in quiescenza dal 1 gennaio 2005, su propria domanda, e gode di pensione di vecchiaia. Questo comportamento concludente ha prodotto due effetti, sia sotto il profilo dell’estinzione del rapporto di lavoro, sia sotto quello dell’impossibilità concreta della reintegrazione.

Il lavoratore ricorre in Cassazione criticando diffusamente la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di reintegrazione e, conseguentemente, escluso l’esercizio dell’opzione per le 15 mensilità di indennità sostitutiva e lamentando, con un secondo motivo, la indebita riduzione del risarcimento del danno dovuto dalla società datrice alla data della percezione della pensione di vecchiaia.

Le censure non sono ammissibili poiché, in concreto, censurano un accertamento di fatto compiuto dal Giudice del merito sulla risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti, in data successiva al licenziamento ed antecedente alla proposizione della impugnativa, in ragione di un comportamento concludente.

La Corte d’Appello, ha dimostrato di avere contezza che il raggiungimento dell’età pensionabile non determina l’automatica estinzione del rapporto di lavoro.

Sotto questo profilo, la decisione impugnata non reca alcuna affermazione in contrasto con i precedenti di legittimità secondo i quali “il compimento dell’età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per l’attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determinano soltanto il venire meno del regime di stabilità del rapporto (con conseguente recedibilità “ad nutum”), ma non anche l’automatica estinzione dello stesso, che, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, è destinato a proseguire, con diritto del lavoratore alla retribuzione, anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Al riguardo, la Corte Costituzionale ha rilevato come, “in una società come quella attuale, in cui si hanno disoccupazione e sottoccupazione, l’assenza di una piena tutela del diritto al lavoro (per difetto di garanzie di stabilità del posto) per i lavoratori che abbiano già conseguito la pensione di vecchiaia, trova ragionevole giustificazione nel godimento, da parte loro, di tale trattamento previdenziale”.

Ebbene, la Corte territoriale ha ritenuto in fatto che la domanda di pensionamento di vecchiaia, unitamente al suo conseguimento, costituissero fatti ulteriori idonei a risolvere il rapporto di lavoro, per una volontà riconducibile al lavoratore.

Si tratta di un apprezzamento nel merito della vicenda fattuale che non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, così come non lo è qualsivoglia comportamento concludente che si assuma idoneo a risolvere un rapporto di lavoro, in ipotesi ancora sub iudice.

Ritenuto risolto il rapporto di lavoro per altra causa, antecedente alla pronuncia giudiziale che ha acclarato l’illegittimità del licenziamento, la Corte di Appello ha conseguentemente escluso la reintegrazione in un posto di lavoro ormai dismesso per comportamento concludente del lavoratore e, quindi, la possibilità stessa di riconoscere il pagamento dell’indennità sostitutiva che detto ordine di reintegrazione presuppone.

In definitiva, parte ricorrente non si è misurata adeguatamente con la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, prospettando solo formalmente una violazione o falsa applicazione di legge, ma inevitabilmente censurando, nella sostanza, un accertamento di fatto ed invocando così un sindacato che esorbita dai poteri conferiti alla corte di Cassazione.

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