La Cassazione, esaminando un caso di allaccio abusivo alla rete elettrica da parte di un condomino, ha chiarito che il fatto è da ricondursi al reato di appropriazione indebita

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 57749/2017, si è pronunciata su un caso avente ad oggetto un allaccio abusivo alla rete elettrica condominiale. La vicenda ha come protagonista una condomina, condannata in primo grado e in appello per il reato di furto con l’aggravante della ‘violenza sulle cose’.

La donna, secondo quanto accertato e per sua stessa ammissione, si era impossessata dell’energia elettrica condominiale, usandola per la propria abitazione. Il tutto facendo collegare due fili all’impianto delle luci delle scale da un tecnico di sua conoscenza. Aveva dichiarato di averlo fatto perché spinta dal bisogno, avendo un marito disoccupato e quattro figli a carico.

Nel presentare ricorso per cassazione, l’imputata evidenziava che non era stato dimostrato che gli altri condomini non avessero consentito l’allaccio abusivo. Così come non era stato dimostrato che dopo l’allaccio avesse effettivamente utilizzato l’energia elettrica.

Inoltre, la ricorrente contestava la fattispecie di reato che le veniva imputato.

Il fatto avrebbe dovuto essere ricondotto all’appropriazione indebita e non al furto. Infine, a suo dire, non si sarebbe verificata alcuna violenza sulle cose “non potendosi ritenere tale il collegamento dei fili al cavo condominiale”.

La Suprema Corte, ha ritenuto il ricorso fondato, accogliendo le argomentazioni proposte. Gli accertamenti avevano evidenziato, infatti, che la donna aveva sottratto “l’energia elettrica già transitata dal contatore che registrava i consumi del condominio”. Si trattava pertanto “di energia ad esso appartenente e pro quota di spettanza anche della ricorrente”.

L’imputata era nel possesso, assieme agli altri condomini, dell’energia in questione, potendo “consumarla ed utilizzarla al di fuori della stretta sorveglianza degli altri condomini”.

Pertanto, secondo gli Ermellini, la condotta contestata rientrava nella fattispecie di “appropriazione indebita”, reato disciplinato all’art. 646 c.p. Di qui la decisione di annullare la sentenza impugnata “perché l’azione penale non poteva essere esercitata per mancanza di querela”.

 

 

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