Dichiarare in un’intervista, senza alcuna selezione del lavoro in corso, di non voler assumere un avvocato gay è discriminatorio? La Cassazione dispone un’ordinanza interlocutoria per la CGUE.

Con la ordinanza interlocutoria n. 19443/2018, la Corte di Cassazione si è rivolta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con un quesito specifico: dichiarare in un’intervista di non voler assumere un avvocato gay è discriminatorio?

La Cassazione, nello specifico, chiede alla CGUE se ciò rientri nella tutela antidiscriminatoria della direttiva n. 2000/78/CE.

Il fatto

Nel corso di una intervista radiofonica, un avvocato ha dichiarato di non voler assumere nel proprio studio o avvalersi della collaborazione di persone omosessuali. Nel merito, appare cruciale ai fini dell’interpretazione il fatto che tali dichiarazioni siano state effettuate fuori da qualunque selezione del lavoro, da parte dell’intervistato.

È questo parte del contenuto del rinvio pregiudiziale che la Corte di Cassazione, prima sezione civile, ha disposto nell’ordinanza interlocutoria n. 19443/2018 nei confronti della CGUE, chiedendo alla Corte di pronunciarsi su una serie di questioni interpretative del diritto comunitario.

Protagonista della vicenda è un noto avvocato e giurista che la Corte d’Appello aveva condannato a risarcire 10mila euro di danno a un’associazione di avvocati per i diritti LGBTI (rete Lenford).

Ebbene, i giudici avevano infatti ritenuto illecito e discriminatorio, il comportamento tenuto dal soccombente che nel corso di un’intervista radiofonica aveva dichiarato di non voler assumere né di volersi avvalere della collaborazione di un avvocato gay nel proprio studio.

La controversia, per gli Ermellini, ha richiesto però l’intervento interpretativo della Corte di giustizia dell’Unione.

Il primo punto concerne la possibilità o meno di un’associazione di avvocati, la quale si proponga la tutela giudiziale delle persone a differente orientamento sessuale, e se questa costituisca un ente esponenziale ai sensi dell’art. 9 comma 2, direttiva n. 2000/78/CE, per il fatto che nel suo statuto contempli anche il fine della diffusione della cultura medesima.

C’è poi una seconda questione.

I giudici si chiedono se rientri nell’ambito della tutela antidiscriminatoria una manifestazione di pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali.

Nel caso di specie, l’intervistato aveva pronunciato frasi astiose senza che vi fosse alcuna selezione di lavoro aperta e neppure programmata per il futuro.

La sentenza impugnata ha ritenuto l’associazione legittimata all’azione.

E ciò in quanto nel suo Statuto si propone lo scopo di  diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone LGBTI. Il tutto allo scopo di sollecitare l’attenzione del mondo giudiziario sulle differenze e promuovendone il rispetto.

La questione che la Cassazione ha sottoposto alla Corte di Giustizia europea è: può ritenersi sufficiente l’enunciazione del proprio fine per rendere l’associazione legittimata ad agire a tutela delle discriminazioni sul lavoro in relazione a un proprio diretto interesse?

Ancora: la seconda questione si sofferma sull’applicazione o meno della disciplina antidiscriminatoria sul lavoro, contenuta nella direttiva 2000/78/CE.

Affermano gli Ermellini che l’ambito di applicazione di tale tutela è riferito, sia dalla fonte eurounitaria che da quella nazionale, alla situazione che concerne l’instaurazione, l’esecuzione o la conclusione di un rapporto di lavoro.

L’ambito proprio tutela è perciò quello dell’autonomia negoziale. Invece, la disciplina antidiscriminatoria non appare volta ad apprestare i mezzi processuali per la tutela dell’onore, della reputazione o dell’identità personale di cui siano titolari i citati soggetti. Questo significa, per i giudici, che il fatto che le affermazioni fossero riferite solo a una possibilità, potrebbe di fatto farle rientrare nella tutela della libertà di manifestazione del pensiero,

Ciò in quanto non presentano neppure le caratteristiche di un’offerta al pubblico.

I giudici vorrebbero evitare di traslare “verso un diritto sanzionatorio dell’intenzione, che sembra incompatibile con i principi dello Stato di diritto e con una legittima compressione dei diritti fondamentali”.

Sul primo punto, però, i giudici sono cauti e si sono dunque rivolti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Sarà quest’ultima a dover chiarire se rientra nell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva n. 2000/78/CE una manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali.

 

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