Dovrà risarcire l’intero importo richiesto dal Fisco, il commercialista citato a giudizio dal contribuente, per avergli reso una errata consulenza circa la convenienza fiscale dell’operazione di recesso societario

Della serie “chi sbaglia, paga” … I giudici della Cassazione hanno affermato che “L’errata valutazione sul costo fiscale per il recesso dalla società (88 mila euro a fronte dei 199 mila euro richiesti dal fisco) è espressione di un chiaro errore del commercialista, come tale, costituente inadempimento della sua prestazione professionale ai sensi dell’art. 1218 c.c.“.

La vicenda

L’attore esponeva di essersi rivolto al commercialista convenuto in giudizio, per avere un parere sulla maniera fiscalmente più conveniente per uscire da una società di cui era socio lavoratore.

Il consiglio del professionista fu quello di recedere dalla società facendosi liquidare la quota, anziché cederla ad altri soci e che, così facendo, su un realizzo di 775.000,00 euro avrebbe pagato tasse per circa 85 mila.

Dopo qualche tempo, il ricorrente veniva reso edotto dal predetto commercialista che l’imposizione fiscale, nel frattempo già eseguita, non sarebbe stata di 85 mila, ma di 117 mila euro, e solo dopo pochi mesi ancora, ricevette un accertamento del Fisco che conteneva una pretesa tributaria di 190.993,82 euro.

Cosicché, invece della somma di 85 mila euro originariamente indicata dal consulente, il costo finale dell’operazione era ammontato a 199 mila euro.

Il processo di merito

Col ricorso introduttivo del giudizio, l’attore accusava il commercialista di avergli fornito un parere sbagliato sulla convenienza fiscale del recesso e dunque, di avergli provocato un danno pari alla somma che aveva dovuto versare al Fisco.

In primo grado la domanda era stata accolta, mentre il giudice dell’appello aveva ritenuto non ravvisabili estremi di responsabilità professionale nella condotta del professionista.

Sulla vicenda si sono pronunciati anche i giudici della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento.

La ratio della sentenza della corte d’appello – affermano gli Ermellini- si può riassumere così: “ non può addebitarsi alcuna responsabilità al commercialista in quanto il recesso era l’unica strada possibile, come emerso dalle deposizioni testimoniali, e il cliente avrebbe dunque, scelto tale soluzione liberamente, fuori da ogni consiglio del consulente”.

Ma per il ricorrente simili argomentazioni erano fuorvianti, posto che la corte d’appello aveva fondato la sua decisione su fatti diversi da quelli emersi e rilevanti per il giudizio: l’oggetto della prestazione professionale era infatti, quella di fornire al cliente una consulenze sia sulla convenienza di abbandonare la società, sia sul modo più conveniente, fiscalmente, per farlo.

Ed invece, la corte d’appello aveva ritenuto il commercialista esente da responsabilità perché il recesso era l’unica soluzione possibile.

Condividono le doglianze difensive i giudici Ermellini che ricordano come “il commercialista, quale che sia l’oggetto specifico della sua prestazione, ha l’obbligo di completa informazione del cliente, e dunque ha l’obbligo di prospettargli sia le soluzioni praticabili che, tra quelle dal cliente eventualmente desiderate, anche quelle non praticabili o non convenienti, così da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse”.

Dagli atti, poi, era emerso che, d’accordo con il commercialista dell’altro socio, il convenuto aveva deciso di proporre al cliente la sola ipotesi del recesso, senza informarlo della difficoltà eventuale che si poneva nel praticare l’altra strada, quella della cessione.

Né questa informazione poteva dirsi superflua perché necessaria a consentire al predetto attore di scegliere autonomamente o di non scegliere, considerando le alternative e i loro costi.

L’errata consulenza

Ma a prescindere della omissione delle necessarie informazioni e limitandosi alla sola prestazione di fatto effettuata, la previsione di un carico fiscale di 85 mila euro per il recesso, a fronte dei 199 mila euro, già poteva considerarsi frutto di un grave errore del consulente, come tale costituente inadempimento al suo obbligo di valutare il costo fiscale della uscita dalla società, a prescindere dalle valutazioni sull’esistenza di alternative.

Di talché non essendo stata fornita la prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c., la Cassazione ha dichiarato l’inadempimento a carico del professionista e cassata la decisione impugnata.

La redazione giuridica

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