Per la Cassazione la formulazione del giudizio critico nell’ambito del diritto di satira consente l’utilizzo di espressioni anche lesive della reputazione altrui

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30193/2018, si è pronunciata su un contenzioso in materia di diritto di satira. Nel caso esaminato, una società per azioni aveva citato in giudizio una società di produzione televisiva per ottenere il risarcimento dei danni per una presunta diffamazione. L’illecito sarebbe stato commesso attraverso la diffusione televisiva di una trasmissione. Nel corso del programma, infatti, un comico aveva posto in risalto il collegamento fra il morbo della mucca pazza e l’ingente quantitativo di carne avariata rinvenuta dentro i capannoni della società. Fatto, quest’ultimo, che era stato oggetto di una inchiesta giudiziaria.

L’istanza era stata respinta sia in primo grado che in appello. Nel ricorrere per cassazione, l’azienda attrice evidenziava come il Giudice di secondo grado avesse “legittimato il collegamento fra il commento satirico ed i fatti reali”. Così facendo aveva applicato erroneamente la regola iuris secondo cui non deve essere violato “il limite della verità”.

Il motivo del ricorso, tuttavia, è stato ritenuto infondato.

La Suprema Corte ha infatti ricordato che “la satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica”. Pertanto, diversamente dalla cronaca, è sottratta all’obbligo di riferire fatti veri. Essa esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto. Il tutto pur essendo soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

Di conseguenza, precisano dal Palazzaccio, nella formulazione del giudizio critico possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui. Ciò purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira. E a patto che non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato.

Nel caso in esame i giudici d’appello avevano fatto corretta applicazione di tale principio. Avevano infatti valorizzato il collegamento fra i fatti veri imputati alla penale responsabilità della società con il morbo all’interno del perimetro della “ricostruzione paradossale”.  Da qui il respingimento del ricorso proposto.

 

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