Per la configurazione del danno lamentato dalla lavoratrice non è necessaria la presenza del dolo ma è sufficiente il verificarsi di una serie di condotte vessatorie che devono essere provate nel corso del giudizio (Cass. Civ., Sez. Lav., Sentenza n. 18808 del 12 luglio 2019)

Il verificarsi di condotte vessatorie sul luogo di lavoro ai danni di una lavoratrice dipendente di un Ente Comunale sono da considerarsi comportamenti che opprimono consapevolmente la persona poiché intenzionali.

La vicenda approda in Cassazione dalla Corte d’Appello di Milano che accoglieva l’impugnativa di licenziamento avanzata dalla lavoratrice e la domanda di risarcimento del danno per comportamenti persecutori sul posto di lavoro.

Il Comune, datore di lavoro, ricorre in Cassazione dolendosi dell’errata valutazione compiuta dai Giudici di Appello dei comportamenti persecutori che avrebbe subito la dipendente e sostenendo che la dipendente stessa aveva creato il clima persecutorio nell’ufficio e conseguentemente non poteva contestarsi al datore di lavoro alcunchè.

Detto in altri termini il Comune adduceva la presenza di conflitto di interessi e chiedeva la riforma integrale della pronuncia d’Appello.

Gli Ermellini invece respingono i motivi del ricorso e ribadiscono che per la configurazione del danno lamentato dalla lavoratrice non è necessaria la presenza del dolo ma è sufficiente il verificarsi di una serie di condotte vessatorie che devono essere provate nel corso del giudizio.

Inoltre viene specificato che bisogna tenere conto ai fini della configurazione del mobbing anche degli inadempimenti colposi agli obblighi datoriali che influenzano psicologicamente i lavoratori.

Sulla sussistenza del reciproco conflitto eccepita dal Comune la Suprema Corte esclude radicalmente che per la configurazione degli atti vessatori sul luogo di lavoro sia necessario che non ricorra tale conflittualità, che quindi se presente, non rileva.

Infatti anche qualora il lavoratore abbia atteggiamenti ostili il datore di lavoro non è comunque giustificato se pone comportamenti vessatori in quanto i suoi poteri direzionali e disciplinari devono sempre essere rispettosi del canone generale di continenza.

La pronunzia si rivela interessante sotto il profilo degli elementi oggettivi e soggettivi del mobbing che dai suoi esordi giurisprudenziali prevedeva necessariamente la comparsa di una “patologia” arrecata al lavoratore a causa delle persecuzioni subite dal datore di lavoro.

La sempre crescente sensibilità dimostrata dai Giudici nei confronti dei lavoratori arbitrariamente maltrattati continua ad allargare le maglie dei fenomeni riconducibili all’alveo del mobbing.

La redazione giuridica

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