Si tratta del caso di una donna operata all’anca nel 1994 e morta senza essersi mai ripresa dall’operazione chirurgica l’anno seguente.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 2060 depositata il 28 gennaio 2018 si è pronunciata definitivamente sul caso di una donna operata all’anca nel 1994 e morta senza essersi mai ripresa dall’operazione chirurgica l’anno seguente.

La donna era stata sottoposta ad un ingente autoprelievo, però i sanitari non avevano verificati i motivi per cui i valori del sangue risultavano alterati.

Solo una volta concluso l’ operazione chirurgica i medici avevano scoperto che la paziente era positiva all’Hiv e pertanto sarebbe stato opportuno non effettuare l’operazione di protesi all’anca cui era stata sottoposta.

Gli Ermellini nella corposa decisione in esame ripercorrono i più significativi principi in tema di responsabilità medica fornendo delle significative precisazioni circa il ruolo dell’aiuto in sala operatoria.

L’obbligo di prendere visione della cartella clinica…

La Suprema Corte osserva che “rientra negli obblighi di diligenza che gravano su ciascun componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sottordinata, quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica del paziente contenente tutti i dati atti a consentirgli di verificare, tra l’altro, se la scelta di intervenire chirurgicamente fosse corretta e fosse compatibile con le condizioni di salute del paziente”.

Prosegue la sentenza sostenendo che “deve in conseguenza escludersi che la diligenza del componente dell’equipe medica in posizione sottordinata si limiti al mero svolgimento delle mansioni affidate senza che sia necessaria una preventiva acquisizione di consapevolezza delle condizioni del paziente nel momento in cui questo viene sottoposto ad operazione”.

…e il principio di controllo reciproco

Da tanto discende che anche il secondo aiuto di una equipe medica è responsabile “per il principio di controllo reciproco che esiste in relazione al lavoro di equipe, secondo il quale l’obbligo di diligenza riguarda non solo le specifiche mansioni, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali”.

Più nello specifico gli Ermellini ritengono che dal sanitario che faccia parte sia pure in posizione di minor rilievo di una equipe medica “si pretende pur sempre una partecipazione all’intervento da non mero spettatore ma consapevole e informata, in modo che egli possa dare il suo apporto professionale non solo in relazione alla materiale esecuzione della operazione, ma anche in riferimento al rispetto delle regole di diligenza e prudenza ed alla adozione delle particolari precauzioni imposte dalla condizione specifica del paziente che si sta per operare”.

Perché possa andare esente da responsabilità è necessario che il medico manifesti apertamente il proprio dissenso, senza però avere l’obbligo di rispettare particolari forme (richiamando appunto il principio espresso da Cass. pen. n. 43828 del 2015).

Per ciò che concerne i due medici che hanno direttamente operato, la loro responsabilità non deriva da una “errata esecuzione dell’intervento chirurgico”, bensì da un “comportamento negligente, di non attenta verifica preliminare delle condizioni fisiche in cui versava la paziente, individuabile attraverso gli esami del sangue, che aveva condotto ad una errata scelta clinica, la scelta appunto di intervenire chirurgicamente benché non si trattasse di una operazione necessaria né urgente, su una paziente in condizioni fisiche alterate, provocandone una perdita di chances di sopravvivenza a fronte della patologia dalla quale era già affetta”.

Ma la responsabilità della struttura sanitaria può essere limitata alle “prestazioni alberghiere”?

Secondo gli Ermellini no poiché con il pagamento del corrispettivo nascono anche “obblighi di messa disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni ed emergenze”.

Costituisce, infatti, ormai consolidato orientamento della Suprema Corte che, a fronte del comportamento colposo e fonte di danni a terzi di medici che operino all’interno di una struttura sanitaria, pubblica o privata che essa sia, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o anche di una collaborazione stabile, la struttura stessa ne risponda a titolo contrattuale (per una riaffermazione del principio v. Cass. n. 7768 del 2016: “In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, anche la struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato risponde della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in relazione alla condotta di due medici, pur dipendenti di un’azienda sanitaria locale, aveva ravvisato la responsabilità del nosocomio privato presso i cui locali risultava ospitato il “presidio di aiuto materno” ove i sanitari avevano operato, e ciò sul presupposto che detta struttura – per il semplice fatto del ricovero di una gestante – era tenuta a garantire alla medesima la migliore e corretta assistenza, non solo sotto forma di prestazioni di natura alberghiera, bensì di messa a disposizione del proprio apparato organizzativo e strumentale).

L’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la clinica all’interno della quale fu eseguita l’infusione e non esaminò lo stato di salute della paziente è profondamente errata, perché considera l’attività di gestione di una struttura sanitaria del pari alla gestione di una struttura puramente alberghiera, in cui il gestore risponde solo della pulizia e dell’ordine dei servizi offerti e non deve preoccuparsi di quanto avviene all’interno delle camere. Portando questo ragionamento alle sue estreme quanto naturali conseguenze, le strutture sanitarie non sarebbero chiamate a rispondere neppure se all’interno di esse sanitari non dipendenti, utilizzando dietro l’erogazione di un corrispettivo la sale operatorie, compissero operazioni vietate, integranti illeciti di rilevanza anche penale.

Al contrario ritiene la Corte che l’aver ospitato all’interno della propria struttura uno o più medici che abbiano compiuto attività medico-chirurgiche su una paziente, anch’essa accolta all’interno della struttura, senza rispettare le regole di prudenza e provocando alla paziente un danno, è fonte, oltre che di responsabilità diretta dei medici, di responsabilità indiretta nei confronti della danneggiata in capo alla struttura sanitaria, senza che questa possa esimersi da tale responsabilità affermando di non essersi ingerita nelle scelte tecniche o di non aver partecipato alle attività svolte dai responsabili, o di non esser stata neppure portata a conoscenza di esse.

Tra l’altro anche le Sezioni unite hanno valorizzato la complessità e l’atipicità del legame che si instaura tra struttura e paziente, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere atteso che, in virtù del contratto che si conclude con l’accettazione del paziente in ospedale, la struttura ha l’obbligo di fornire una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.  

Avv. Maria Teresa De Luca

 

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