A seguito dell’intervento di asportazione di ernia del disco L4-L5 ed esplorazione di L5-S1, la paziente riporta paralisi del piede destro (Cassazione Civile, sez. VI, sentenza n. 5875/2021 depositata il 04/03/2021)

La Corte d’Appello di L’Aquila confermava la decisione di primo grado che rigettava la domanda risarcitoria della paziente per le lesioni subite a seguito dell’intervento chirurgico di asportazione di ernia del disco L4-L5 ed esplorazione di L5-S1, cui si era sottoposta nel 1997.

La Corte territoriale ha desunto dalla CTU svolta in primo grado la prova del corretto operato dei chirurghi e della ascrivibilità della lesione lamentata (paralisi del piede destro e patologie correlate) a “danno meccanico ischemico della quinta radice lombare” già provocato dall’ernia, suscettibile di progredire nel tempo anche ove questa venga trattata chirurgicamente.

Secondo i Giudici di merito la paralisi al piede accusata dalla paziente costituiva una complicanza non rimediabile dall’intervento che non poteva essere evitato in quanto avrebbe corso l’alto rischio di perdere completamente il movimento del piede.

La donna ricorre in Cassazione ove resiste l’Azienda Sanitaria con controricorso.

La paziente lamenta erronea o omessa valutazione delle prove offerte dalla danneggiata per fondare la responsabilità antagonista.

Nello specifico, deduce che vi era la prova del nesso di causa tra l’intervento e la paralisi al piede e che l’inadempimento dei sanitari vi è stato anche se il CTU ha ritenuto “che possa derivare dall’operazione, ma non è detto che debba derivarne, e l’erronea valutazione delle prove è proprio l’aver ritenuto la possibilità del verificarsi dell’evento come esclusione della responsabilità”.

Ed ancora deduce che il nesso di causa tra condotta medica e danno è da ritenersi sussistente quando appaia più probabile che non che un tempestivo e diverso intervento medico avrebbe evitato il danno.

Con il secondo motivo lamenta carenza, violazione del consenso informato, della necessaria evidenziazione delle reali eventuali conseguenze dell’intervento.

La prima doglianza viene ritenuta inammissibile e infondata poiché sovrappone al suo interno critiche alla valutazione delle prove ed alla ricognizione del fatto e ipotizzati errores in iudicando, assumendosi erroneamente individuate o falsamente applicate le regole di giudizio pertinenti alla fattispecie.

Tali sovrapposizioni non fanno cogliere le singole doglianze prospettate.

La tipizzazione dei motivi di ricorso implica la rigorosa specificità. E’ onere del ricorrente argomentare le censure formulate nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge.

Anche l’invocata erronea applicazione delle regole di riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria, non coglie nel segno.

Le considerazioni svolte circa il concetto di complicanza svolte dalla Corte territoriale sono finalizzate non già all’intervento in sé e per sé, bensì a preesistente fattore causale esterno, non inciso, nè rimediabile, dall’operato dei Chirurghi.

La prova del fattore causale esterno e non prevenibile, secondo l’univoco accertamento contenuto in sentenza, è stata positivamente raggiunta, così come del resto è stata anche raggiunta la prova del corretto operare secundum leges artis dei Sanitari.

Ad ogni modo, la Corte ribadisce che “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, ma del diritto alla salute”.

Quindi, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del Sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica e la condotta del Sanitario.

Anche il secondo motivo di impugnazione, inerente la violazione del dovere di informazione, viene considerato inammissibile, in quanto la Corte territoriale si è conformata alla giurisprudenza consolidata.

Quando viene chiesto dal danneggiato, in corso di causa, anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento da parte dello stesso Medico al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato, si verifica una mutatio libelli e non una mera emendatio, perchè nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia.

In argomento non sussiste, contrariamente a quanto affermato dalla paziente, alcun mutamento giurisprudenziale.

Il danno da mancanza di consenso informato e della sua distinzione rispetto al danno da lesione del diritto alla salute, è patrimonio della giurisprudenza da circa mezzo secolo, ribadisce la Corte.

Difatti, il primo precedente risale al 1968 (Cass. 06/12/1968, n. 3906), che affermava l’obbligo del sanitario di rendere edotto il paziente dell’effettiva natura della malattia e di pericoli che l’atto terapeutico comporta.

Più nettamente tra gli anni ottanta e novanta si incrementava la tutela dell’effettività del consenso (Cass. n. 1773 del 26/03/1981; n. 3604 del 12/06/1982; n. 10014 del 25/11/1994; n. 364 del 15/01/1997).

Il punto sul piano processuale era, ed è, l’impossibilità di considerare compresa la domanda di risarcimento del danno da mancanza del consenso informato in quella di risarcimento del danno da lesione del diritto alla salute causato dall’inesatto adempimento della prestazione sanitaria.

Oltretutto, tale doglianza non risulta proposta in appello.

In conclusione, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione in favore dell’Azienda Sanitaria delle spese di giudizio che vengono liquidate in euro 2.500,00.

Avv. Emanuela Foligno

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