Confermata la pena per tre volontarie di un rifugio per animali, che sopprimevano cani e gatti senza qualifica veterinaria e senza necessità, mediante somministrazione di farmaci eutanasici

Due anni di reclusione. E’ la pena, confermata dalla Corte di Cassazione, inflitta a tre volontarie di un rifugio per animali di Cremona che sopprimevano cani e gatti senza qualifica. Le imputate, che facevano parte dell’associazione protezionista che gestiva la struttura, erano accusate di uccisione di animali e esercizio abusivo della professione di veterinario.

Per il Tribunale del capoluogo di provincia lombardo, avevano praticato “con crudeltà” e “senza necessità” la soppressione eutanasica di decine di cani e gatti. Le donne avevano portato gli animali alla morte mediante somministrazione di farmaci quali Tanax e Penthotal. Inoltre avevano praticato, sempre illegittimamente, vaccinazioni e rimozioni di punti di sutura.

Tali attività illecite si sarebbero esplicate tra i 2005 e il 2009, anno in cui il canile venne posto sotto sequestro dai carabinieri del Nas.

La vicenda è stata definitivamente chiusa dalla Cassazione. La Suprema Corte, con la sentenza n. 4562/2018, ha infatti respinto i ricorsi presentati dalle imputate.

Gli Ermellini, hanno evidenziato come le testimonianze acquisite in corso di causa avessero confermato che la soppressione degli animali era avvenuta senza alcuna necessità.

Peraltro l’abbattimento era avvenuto in assenza di visita veterinaria e non era giustificato da alcuna certificazione.

Anche gli indizi raccolti confermavano tale circostanza. Tra questi, ad esempio, l’indicazione, sui cartellini identificativi degli animali soppressi, di cause non riconducibili tra le legittime ipotesi di soppressione per ragioni veterinarie.

Inoltre, i documenti di trasporto delle carcasse avviate allo smaltimento riportavano un peso complessivo nettamente superiore al numero degli animali morti emergente dai registri ufficiali. Presso lo stesso canile, peraltro, erano state rinvenute dosi di farmaci letali in quantità abnormi rispetto alle esigenze della struttura.

Quanto poi all’impugnazione relativa al reato di esercizio abusivo della professione, la Cassazione rileva che la norma descrive una fattispecie di reato avente natura istantanea. Essa non esige un’attività continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata.

Nel caso esaminato, i giudici di merito avevano correttamente rilevato che le pratiche di eutanasia effettuate fossero riservate alla professione veterinaria. Il loro esercizio, da parte delle imputate, integrava quindi l’illecito di esercizio abusivo della professione. Di qui, la conferma della condanna.

I Giudici del Palazzaccio, inoltre, hanno anche ammesso la possibilità per la Lega nazionale per la difesa del cane di costituirsi parte civile. L’Ente, infatti, per l’attività svolta e per la sua finalità statutaria primaria (la tutela dei cani), si fa portatore, secondo un meccanismo di immedesimazione, di una posizione di diritto soggettivo.

Tale posizione lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni derivati dalle violazioni della legge penale. Tuttavia, precisa la Suprema Corte, è necessario che vi sia anche una forma di collegamento territoriale tra l’associazione e il luogo in cui l’interesse è stato inciso.

 

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