L’intervento previsto solo per l’incurvamento ventrale del pene veniva realizzato anche per incurvamento laterale, aggravando la situazione precedente. La Corte di Cassazione ribalta la decisione di Appello per errata distribuzione degli oneri probatori (Cassazione Civile, sez. III, 27/03/2024, n.8364).

La vicenda

Il paziente veniva ricoverato presso l’ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano perché, essendo affetto da una patologia congenita a livello genitale, consistente nell’incurvamento, solo di tipo ventrale, e non laterale, del pene, doveva essere sottoposto all’intervento chirurgico diretto all’incurvamento ventrale. Invece, l’intervento era stato realizzato anche per un incurvamento laterale, mai riscontrato in precedenza, per cui tale incurvamento era stato provocato da un errore medico che aggravava la situazione precedente, costituito dalla deviazione laterale, con la mancata risoluzione dell’incurvamento ventrale, da cui le persistenti difficoltà della funzione erettile.

Il Tribunale di Milano rigettava la domanda, invece, la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 22 aprile 2021, riconosceva l’azienda ospedaliera responsabile per errore medico e la condannava al pagamento della somma di €168.180,60, oltre accessori.

Il giudizio in Corte di Appello

I Giudici di Appello, basandosi sulla CTU medico-legale eseguita in primo grado, nonché dei chiarimenti forniti a verbale dai Consulenti, danno atto che in relazione al “recurvatum laterale” i Consulenti avevano evidenziato come “sussistesse comunque una colpa dei sanitari, o per non essere stata la detta patologia diagnosticata nella visita preoperatoria, evento meno probabile, essendo stata indotta una erezione al 90%, che avrebbe sicuramente evidenziato il recurvatum laterale, e visto che i chirurghi avevano rilevato la detta patologia in sala operatoria con una erezione del 100%, oppure, se presentatasi la patologia durante l’intervento, era stato quest’ultimo a causare una patologia prima inesistente.” Precisano, quindi, che “l’onere probatorio in relazione alla presenza del recurvatum laterale, fra l’altro con un’angolazione tale da suggerire una correzione chirurgica, era a carico della struttura sanitaria, che non vi aveva adempiuto”.

Ragionando in tal modo, secondo i Giudici di secondo grado, rimaneva il dato certo che tale patologia non fosse presente prima dell’intervento e che costituiva quindi un peggioramento, determinando nel paziente “un aggravamento di disturbo erettile a prevalente genesi psicogena associato ad un disturbo dell’adattamento“.

Per quanto riguarda il “recurvatum ventrale”, osserva sempre la Corte di Appello, che i CTU avevano affermato che “la recidiva, evento probabile anche se in una ridotta percentuale, era prevedibile o resa meno frequente con l’impiego di suture non riassorbibili, e che era rimasto indimostrato il tipo di sutura impiegato, poiché della descrizione dell’intervento in cartella clinica risultava esclusivamente che si era trattato di “sutura monofilamento, che poteva essere utilizzata per suture sia riassorbibili che non riassorbibili”. Pertanto, l’onere probatorio in ordine alla tipologia di sutura impiegata era a carico del debitore, che non l’aveva assolto, e che anche la recidiva del recurvatum ventrale aveva inciso concausalmente sull’aggravamento di cui sopra. Aggiungono, ancora, che l’intervento del recurvatum laterale e la recidiva di quello ventrale avevano determinato un aggravamento del disturbo erettile, prevalentemente di natura psicogena, ma associato ad un disturbo dell’adattamento insorto dopo l’intervento, tale da essere definito danno differenziale, aggiunto cioè alla patologia preesistente. Pertanto, il danno attribuito ai sanitari viene stimato al 18%, quale danno differenziale fra il 10% ed il 28%, dovendo sottrarsi alla invalidità effettivamente risultante quella ineliminabile (10%) e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario.

Ciò accertato, in ordine all’atto clinico, i Giudici di Appello ravvisano anche la violazione del consenso informato riguardo l’insorgenza o recidiva del recurvatum laterale e la recidiva di quello ventrale e liquidano alla vittima l’importo di euro ventimila.

Il ricorso in Cassazione

L’Azienda sanitaria si rivolge alla Corte di Cassazione e osserva che risulta omesso l’esame del fatto, descritto nel registro operatorio in atti, e costituito dall’accertamento, da parte dei chirurghi prima di iniziare l’intervento, dell’esistenza di un recurvatum laterale, il quale era quindi preesistente e non poteva considerarsi una conseguenza dell’operazione e che, oltre il vizio motivazionale, vi è anche contrasto con la descrizione dell’intervento operatorio risultante dal registro operatorio che, quale atto pubblico, fa piena prova fino a querela di falso.

Osserva, inoltre, che vi è contrasto fra affermazioni inconciliabili perché l’assunto del giudice di appello, secondo cui il recurvatum laterale sarebbe stato causato dall’intervento chirurgico, entra in contraddizione con le valutazioni di CTU in termini di assenza di alterazioni organico – anatomiche riconducibili a manovre chirurgiche e di complicanze intra-operatorie, nonché di carattere congenito della patologia del recurvatum laterale, e dunque per definizione preesistente all’intervento.

Ad ultimo, osserva ulteriormente che il Giudice di Appello, dando per insorto il recurvatum laterale a seguito dell’intervento per non avere la struttura sanitaria provato la sua preesistenza, ha violato il criterio di riparto dell’onere della prova, posto che era il paziente che avrebbe dovuto provare l’assenza del recurvatum laterale prima dell’intervento e la sua insorgenza dopo l’esecuzione dell’intervento.

Quest’ultima censura è fondata. Incombe sul paziente l’onere di provare che dall’intervento sanitario è derivato un peggioramento delle condizioni di salute. Nel caso di specie, il paziente doveva provare che il peggioramento, in termini di insorgenza del recurvatum laterale, era successivo l’intervento operatorio, e dunque doveva provare che prima di quest’ultimo la patologia non era presente, ma era sopravvenuta all’intervento.

Invece, la Corte di Appello di Milano ha erroneamente posto a carico dell’Ospedale l’onere probatorio circa la presenza del recurvatum laterale, sciogliendo il nodo del fatto ignoto o incerto in termini sfavorevoli per il debitore.

Le suture e la recidiva

Con una quarta censura, anch’essa fondata perché collegata alla terza di cu si è dato atto sopra, l’Azienda ospedaliera censura il Giudice di Appello per avere posto a carico della struttura sanitaria l’incertezza relativa al nesso di causalità con riferimento alla recidiva del recurvatum ventrale, non risultando accertato quale tipo di monofilamento (riassorbibile o non) sia stato impiegato per la sutura, e che inoltre non è stata esaminata la valutazione della CTU secondo cui la recidiva, dovuta a cedimento delle suture o dei tessuti, “non costituisce una criticità dal punto di vista dell’adeguatezza dell’intervento effettuato”.

Ebbene, è stato accertato che la recidiva è resa meno frequente con l’impiego di suture non riassorbibili e che era rimasto indimostrato il tipo di sutura impiegato, profilo reputato ricadente nell’onere probatorio della struttura sanitaria. La tecnica sanitaria utilizzata, in quanto relativa all’adempimento della prestazione professionale, ricade certamente nell’ambito dell’onere probatorio del debitore.

Il punto è che in relazione alle suture non riassorbibili, non vi è un accertamento in termini di “più probabile che non” quanto alla capacità di tale tecnica di prevenire la recidiva. Difatti la Corte di Appello si è limitata ad affermare che la recidiva è resa meno frequente con l’impiego di suture non riassorbibili, ma, dal punto di vista del nesso eziologico, trattasi di rilievo generico, perché resta neutrale sul piano del più probabile che non. Quest’ultimo è profilo afferente al nesso eziologico, e dunque ricadente nell’onere probatorio del paziente.

Conclusivamente sul punto, il Giudice di merito dovrà svolgere una nuova valutazione e accertare se l’impiego di suture non riassorbibili è più che probabilmente che non in grado di prevenire la recidiva. Ove la circostanza rimanga non accertata, le conseguenze sfavorevoli del mancato accertamento devono ricadere sul paziente.

Il consenso informato

Passando al consenso informato, osserva l’Ospedale che i Giudici di Appello non hanno accertato se il paziente, ove informato, non si sarebbe sottoposto al trattamento sanitario, circostanza da accertare anche in presenza di violazione del diritto all’autodeterminazione, e che comunque, in relazione a quest’ultima violazione, non risultano allegati e provati specifici pregiudizi, di apprezzabile entità, diversi dal danno alla salute.

Anche questa censura è fondata. Le conseguenze dannose che derivano secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto.

Anche nel caso in cui si discuta di mera violazione del diritto all’autodeterminazione. il presupposto del diritto risarcitorio è la circostanza che il paziente, ove informato, non si sarebbe sottoposto al trattamento. Inoltre, anche qualora venga dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione, è indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, poiché non si tratta di danno in re ipsa.

Conclusivamente, vengono accolte le censure sopra analizzate e la causa viene rinviata alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

Avv. Emanuela Foligno

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