La Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti sulla possibilità di licenziare un dipendente per ragioni di profitto, pur in assenza di crisi

È possibile licenziare un dipendente per ragioni di profitto? Ed è legittimo farlo anche se l’azienda non è in crisi in quel momento?
A questa domanda ha risposto la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell’ordinanza n. 19655/2017. Per i giudici, è in effetti legittimo licenziare un dipendente per esigenze di profitto, pur in assenza di una situazione di crisi.
Tuttavia, occorre che il giudice verifichi l’effettività del ridimensionamento e il nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato.
Con questa ordinanza, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di una società – datrice di lavoro – il cui licenziamento comminato a un dipendente per riduzione del personale veniva dichiarato illegittimo.
La Corte d’Appello aveva condannato la s.p.a. ricorrente anche alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente e al pagamento, a suo favore e a titolo risarcitorio, delle retribuzioni maturate dal licenziamento.
In Cassazione, la società datrice di lavoro aveva evidenziato che il licenziamento era dipeso dalla soppressione dell’intero reparto cui era addetto il lavoratore. Tuttavia, come evidenziato dalla Corte d’Appello e come condiviso dalla Cassazione, l’istruttoria esperita non aveva dimostrato che fosse stato soppresso l’intero settore per il quale il dipendente era stato assunto.
La Corte ha però precisato che è legittimo il licenziamento per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa, anche in funzione di un aumento della redditività di impresa. Licenziare un dipendente per ragioni di profitto è dunque possibile, ma solo una volta che sia stata verificata l’effettività del ridimensionamento e del nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato.
Si tratta, infatti, di un accertamento di ricorrenza, e non pretestuosità, delle ragioni stabilite dall’art. 3 L. 604/1966 affidato al sindacato giudiziale, senza alcuna indebita interferenza sull’insindacabile autonomia imprenditoriale.
Questo orientamento può ritenersi consolidato in giurisprudenza da una serie di pronunce che hanno avvalorato la legittimità del licenziamento “per profitto” (ex multis, Cass. 25201/2016, 25197/2013, 7474/2012 e 15157/2011).
Non bisogna però dimenticare un’altra scuola di pensiero.
Quella cioè secondo cui, pur rientrando nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una sua migliore gestione, deve essere deciso dall’imprenditore non solo per un incremento del profitto, ma per far fronte a situazioni sfavorevoli, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un’effettiva necessità di riduzione dei costi. Ciò è stato stabilito dalle sentenze della Cassazione. n. 14871/2017 e n. 21282/2006.
Nel caso di specie, però, un legittimo sindacato è stato operato dai giudici di merito e sussiste una logica motivazione, integrando un accertamento in fatto insindacabile dalla stessa Cassazione.
Pertanto il ricorso della società datrice di lavoro deve essere ritenuto inammissibile.
 
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