A volte le sentenze non servono solo a fare “giustizia” (o ingiustizia a seconda dei casi), ma anche e soprattutto a riflettere.

Come nel caso della decisione della Corte di Cassazione di fine settembre che ha annullato, con rinvio la sentenza con la quale la Corte di Appello di Trieste, confermava l’ergastolo, irrogato dal giudice di prime cure, dell’uomo che nel novembre 2013 uccideva il proprio figlio adottivo, reo di avere tentato di difendere la madre (adottiva), da lungo tempo sottoposta a vessazioni e violenze fisiche da parte del marito.

Il secondo comma dell’art. 577 c.p.

Ma il vero protagonista della vicenda è il secondo comma dell’art. 577 del codice penale, che esclude la pena dell’ergastolo nel caso in cui il reato di omicidio venga commesso nei confronti del coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro affine in linea retta.
Ciò che sgomenta è che per il codice penale, quindi, la mancanza di consanguineità non consente di applicare la (giusta) pena dell’ergastolo, ma permette che la reclusione vada da un minimo di ventiquattro ad un massimo di trent’anni.
Questa decisione serve soprattutto a mettere in rilievo la disparità di trattamento che il codice penale riserva ai soggetti non appartenenti alla stessa linea di sangue rispetto alle tutele agli stessi accordate dalle norme previste dal codice civile e dalle leggi speciali.

Dura lex, sed lex

Ma la scelta degli Ermellini era obbligata, ossia quella di applicare il diritto vigente, anche se la norma applicata costituisce la diretta eredità dell’art. 576 del codice Rocco, emanato con Regio Decreto nel lontano ottobre del 1930 e quindi ben 87 anni fa.
Ed allora tocca al Legislatore, nel prendere atto di questa decisione della Corte di Cassazione, che mette in evidenza il diverso atteggiamento del settore civilistico del nostro ordinamento, che presta una particolare attenzione al diritto di famiglia, tanto da riconoscere al figlio adottivo lo stesso status di quello naturale, annullare questa inspiegabile dicotomia della legge a fronte di un medesimo comportamento estremamente violento nei confronti di una persona di famiglia.
«Sentenza annullata senza rinvio: e trasmissione degli atti alla Corte d’assise d’appello di Venezia per la quantificazione della pena», con queste parole i giudici della Corte di Cassazione prescrivono alla Corte di Appello a Trieste di non scendere sotto i 16 anni di reclusione come prossima pena.

La decisione della CEDU

La vicenda processuale di Remanzacco (Udine), al centro della sentenza della Corte di Cassazione è la stessa che alcuni mesi fa aveva portato a una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani.
I giudici di Strasburgo avevano stabilito che «non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta» dalla mamma del ragazzo, «le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della donna alla morte di suo figlio».
La Corte europea dei diritti umani ha agito per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei diritti umani.
I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali. I giudici di Strasburgo hanno rilevato che «la signora T. è stata vittima di discriminazione come donna a causa della mancata azione delle autorità, che hanno sottovalutato (e quindi essenzialmente approvato) la violenza in questione».
Sarebbe opportuno, quindi che il Parlamento si impegnasse a correggere una norma, ossia il secondo comma dell’art. 577 c.p., che ormai è anacronistica e che non è più accettabile nel punto in cui consente una disparità di trattamento che il Codice civile e la nostra coscienza sociale hanno già eliminato da tanto tempo.
 

Avv. Maria Teresa De Luca


 
 
 
 
 
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