La preponderanza della evidenza va accertata quando si deve determinare il nesso di causa tra l’operato dei medici e il danno denunciato dal paziente. Ecco di cosa si tratta

L’accertamento del collegamento causale tra il fatto illecito ed evento dannoso, nello specifico settore della responsabilità medica, da tempo è stato oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, preoccupata di precisare come sia compito proprio del giudice di merito quello di rinvenire un nesso di causalità giuridica tra l’illecito (commissivo od omissivo) e danno cagionato, distinto dal nesso di causalità materiale che “naturalmente” lega un dato evento a tutti i suoi antecedenti causali.
Non appare inutile, invero, sottolineare come l’esistenza di un legame eziologico tra la condotta di un soggetto e l’evento dannoso rappresenti, a mente dell’art. 2043 CC e di altre disposizioni extra codicistiche previste in tema di responsabilità civile, la condizione imprescindibile per la attribuzione del fatto illecito (e quindi del danno) al soggetto che ne è stato l’autore.
In questo senso, si è soliti sempre distinguere tra causalità materiale (o in fatto), per indicare il collegamento materiale tra la condotta del danneggiante e l’evento dannoso, e causalità giuridica che, al contrario, identifica il collegamento giuridico tra il fatto dannoso e le sue conseguenze al fine di perimetrare l’area del danno risarcibile.
L’unica disposizione del Codice Civile, che affronta esplicitamente il problema causale, è rappresentata dall’art. 1223, richiamato in sede aquiliana dall’art. 2056 CC, secondo cui “il risarcimento del danno per l’inadempimento e per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
Secondo l’orientamento prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, il nesso causale nello illecito civile non sarebbe un concetto unitario ma assumerebbe rilievo sotto due profili: quello dell’evento lesivo, da una parte, e quello del danno risarcibile, dall’altra.
Con riguardo all’evento lesivo, il nesso di causalità svolge la funzione di imputare al responsabile il fatto illecito in un contesto in cui si è soliti parlare di causalità materiale o di fatto.
Con riferimento al danno risarcibile, il nesso di causalità svolge, al contrario, la funzione di determinare l’ammontare del danno cagionato ed in tale ipotesi si è soliti parlare di causalità giuridica.
Semplificando, può dirsi che la causalità materiale, ricostruendo il fatto ai fini della imputazione della responsabilità, risponderebbe all’interrogativo circa l’autore (chi è stato?), laddove la causalità giuridica, presupponendo già risolto il problema della imputazione, determinerebbe gli eventi da porre a fondamento del danno risarcibile, rispondendo all’interrogativo “quanto devo pagare?”.
Per l’accertamento della causalità giuridica, tra evento lesivo e danni conseguenza, risulta pressoché pacifico in dottrina e giurisprudenza il principio, mercé l’art. 1223 CC, per cui occorre far riferimento al criterio della causalità adeguata, sulla base del quale sono risarcibili i danni immediati e diretti in quanto siano la “normale conseguenza dell’evento lesivo secondo l’id quod plerunque accidit o secondo la comune esperienza”.
Dunque, un nesso causale è sempre necessario, nel nostro sistema civilistico, sia per individuare il responsabile del fatto illecito, sia per determinare le conseguenze risarcibili: sistema che non conosce, purtuttavia, forme di responsabilità c.d. stocastica, espressione utilizzata da autorevole dottrina (ALPA , La Responsabilità Civile in Trattato di diritto civile, Milano 1998, p. 318) alludendo a quelle ipotesi fondate sul mero stato di pericolo al di fuori di un collegamento materiale certo con l’evento dannoso.
Quanto sopra, con riferimento alle condotte commissive, laddove per quelle omissive le prospettive di valutazione mutano, dato che l’interessato è chiamato a scrutinare non una condotta attiva ma, per l’appunto, una omissione e, quindi, una mancata azione: in questo caso, l’accertamento del nesso di causalità necessariamente andrebbe svolto in relazione alla idoneità dell’azione dovuta dal danneggiante ma non tenuta in concreto al fine di impedire l’evento lesivo.
Dunque, nell’illecito omissivo del medico, che di sovente viene portato a conoscenza del magistrato civile, l’attività che il giudicante è chiamato a svolgere consiste nell’accertare che l’azione omessa dal sanitario rappresenti la causa prossima da sola sufficiente a produrre il danno interrompendo il nesso eziologico fra questo e le eventuali altre cause antecedenti (es. cause genetiche o naturali), declassate a mere occasioni.
Il problema che pongono simili vicende, è comprendere quale sia la regola da applicare tra i vari parametri astrattamente disponibili, idonei alla probabilistica verifica della esistenza del nesso di causalità.
È di aiuto, al riguardo, la giurisprudenza della Corte Regolatrice che è più volte intervenuta sulla questione arrivando a fissare alcune regole che, mercé la separazione tra causalità civile e causalità penale, attualmente richiedono un livello di prova, in ordine all’esistenza del nesso eziologico, inferiore all’accertamento in sede penale – basato sulla c.d. “ certezza oltre ogni ragionevole dubbio” – giacché assestato su quello che è stato definito “crinale” “del più probabile che non” o “della preponderanza della evidenza”.
L’attuale approdo interpretativo prende le mosse dalla monumentale decisione della Cass. S.U. 11/09/2002 n° 30328 (c.d. sentenza Franzese) secondo cui è causa dell’evento (come già accennato) la condotta umana, attiva od omissiva, che si pone come condizione necessaria – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento, da cui dipende l’esistenza del reato, non si sarebbe verificato.
La verifica della causalità richiede un giudizio controfattuale da compiersi ex post, ossia dopo e rispetto all’evento come verificatosi hic et nunc, secondo il seguente schema mentale:
a) la condotta umana è condizione necessaria dell’evento se, eliminata dal novero di fatti realmente accaduti, esso non si sarebbe verificato;
b) la condotta umana non è condizione necessaria dell’evento se, eliminato secondo lo stesso procedimento mentale, esso si sarebbe ugualmente verificato.
Detto “condizionale controfattuale”, come definito dalle S.U., rimane tale anche nella peculiare forma della causalità c.d. omissiva.
Unica differenza, rispetto alla causalità attiva o commissiva, è che in tale ipotesi il giudizio sarà doppiamente ipotetico perché dovrà rispondersi al quesito se “mentalmente” eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e “sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato,” il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno”.
Come accennato, l’attuale assetto giurisprudenziale può ben comprendersi e compendiarsi nelle conclusioni espresse dalla sentenza della Cassazione 22/10/2013 n° 23933 secondo cui “il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: ne senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza della evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Aggiunge la citata decisione “che l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ad un evento di danno può essere affermata dal giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio: infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del “50% plus unum”.
Tra le altre, si cita anche la recente decisione della S.C. 19/01/2016 n° 768 la quale ribadisce, sul solco di Cass. S.U. 11/01/2008 n° 581:
a) che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 CP e della regolarità causale;
b) che ciò che differenzia l’accertamento del nesso causale in sede penale ed in sede civile è la regola probatoria, valendo per il primo il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, mentre nel secondo vale il principio della preponderanza o “del più probabile che non”, fermo restando che la regola della certezza probabilistica non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativa statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa) ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza dell’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica).
In questo senso, vedasi da ultimo Cass. 27/03/2017 n° 7862.
In buona sostanza, il criterio empirico della probabilità statistica è certamente necessario ai fini dell’accertamento del nesso causale, ma non sufficiente, imponendosi al Giudice una “verifica aggiuntiva” di tipo induttivo tesa al riscontro della attendibilità dell’utilizzo di detto criterio alla fattispecie concreta, alla stregua di tutto il materiale probatorio acquisito nel processo, anche al fine di escludere la possibilità di ricorrere ai processi eziologici alternativi.
Sintetizzando, va rilevato che all’indomani della c.d. sentenza Franzese, la S.C. ha posto in rilievo la impossibilità di una “transatio secca” dei principi ivi espressi sul sul versante civilistico dell’accertamento della causalità, privilegiando la tesi dell’autonomia.
La causalità civile, infatti, risponde ad esigenze e finalità diverse da quella penale in virtù della diversa funzione svolta dal sistema della responsabilità civile, che non è quella di sanzionare un comportamento colpevole, a fronte della commissione di un reato, bensì, in primis, quella di riparare un danno. Il che permette, come visto, il riscontro della causalità civile in una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale.
In conclusione, anche nel campo civile, il criterio della probabilità come sopra delineato è di tipo logico e non già statistico: purtuttavia trattasi di una probabilità meno rigorosa di quella propugnata dalla c.d. sentenza Franzese, poiché non richiedente la certezza assoluta “al di là di ogni ragionevole dubbio” ma la certezza realistica della sussistenza del nesso causale, secondo la logica “del più probabile che non”.
In tale contesto è importante precisare i criteri di riparto dell’onere probatorio, ribaditi da ultimo da una recente sentenza della Corte Regolatrice (Cass. 08/02/2017 n° 3398) la quale ha sottolineato come nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica “incombe sull’attore danneggiato l’onere di dimostrare il nesso di causalità tra condotta del medito ed il danno, di cui si è richiesto il risarcimento; con la conseguenza che, ove al termine dell’istruttoria la causa effettiva del danno denunciato rimanga incerta, la domanda risarcitoria dovrà essere disattesa”.
In tal senso, vedasi anche, ex multis, Cass. 20/10/2015 n° 21177 e da ultimo Cass. 18/05/2017 n° 12490.
Per escludere la propria responsabilità, il medico sarà tenuto a dimostrare che l’evento lesivo si è verificato per cause e lui non imputabili oppure che l’esecuzione di una determinata operazione comportava l’adozione di tecniche esecutive di particolare complessità o difficoltà: e ciò in quanto l’obbligazione del sanitario non è di risultato (guarigione del paziente) ma di mezzi.
Sui superiori principi è attestata attualmente la stragrande maggioranza della giurisprudenza di merito, segnalandosi tra le ultime decisioni – per la esauriente e chiara esposizione e per la soluzione delle problematiche ad esse sottese – quelle del Tribunale di Roma 12/07/2017 n° 14388 e 13/07/2017 n° 14811 (in www. Responsabilità Medica 2017 Pacini Editore), del Tribunale di Palermo 11/07/2017 n° 3775 (ivi 2017) nonché del Tribunale di Taranto 03/05/2017 (in www.Anaao.it).
In particolare, si cita detta ultima decisione in quanto ha regolato, con estrema chiarezza e sinteticità espositiva, la questione sottoposta al suo scrutinio in un caso in cui si discuteva di un errore dei sanitari del Pronto Soccorso di un Ospedale locale i quali, in seguito ad una errata diagnosi di rottura del metatarso del piede destro, occorso ad un Tizio in conseguenza di un infortunio sul lavoro, apponevano il gesso a tale arto, trascurando del tutto di intervenire sul piede sinistro, ove in effetti si era verificata detta frattura.
In pratica il gesso veniva inutilmente applicato al piede destro ove vi era una semplice distorsione della caviglia senza intervenire sul piede sinistro ove, in effetti, si era verificata la frattura del metatarso.
Il mancato trattamento del gesso dell’arto fratturato aveva comportato un allungamento dei tempi di guarigione compromettendo parzialmente il consolidamento della frattura con conseguente danno biologico determinato dal CTU nella misura del 2%.
La domanda dell’infortunato veniva accolta sulla base degli anzidetti principi essendo stata provata l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo riconducibile all’errore sanitario ed il danno subito per cui doveva predicarsi la esistenza di un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti od assorbenti.

Avv. Antonio Arseni
(Foro di Civitavecchia)

 
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