Una sentenza della Cassazione ha fornito delle precisazioni importanti sui casi in cui un professionista intrattenga rapporti sessuali con la cliente.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 20884 del 03 maggio 2017 ha fornito dei chiarimenti molto importanti sulle conseguenze per il professionista che decida di intrattenere rapporti sessuali con la cliente.

Nel caso di specie esaminato dai giudici, il professionista in questione era stato condannato, sia in primo che in secondo grado, per il reato di “violenza sessuale” (art. 609 bis cod. pen.).

L’uomo aveva intrattenuto rapporti sessuali con una cliente, costringendola a subire una violenza.

Non solo. La Corte d’appello aveva anche riconosciuto anche l’esistenza di alcune circostanze aggravanti. Questo poiché la condotta del professionista era stata posta in essere mediante l’approfittamento di circostanze tali da ostacolare la difesa della vittima e mediante abuso di relazioni di ufficio.

Il professionista, ritenendo ingiusta la sentenza, si è rivolto in Cassazione sperando in un annullamento.

Secondo l’imputato, infatti, la condanna era stata ingiustamente pronunciata. Ciò in quanto il Giudice si era basato solamente sulle dichiarazioni della persona offesa.

A suo avviso tali dichiarazioni non potevano ritenersi attendibili.

I Giudici, invece, non avrebbero tenuto in considerazione quanto affermato dall’imputato. Questi aveva osservato come la persona offesa, in realtà, avesse acconsentito al rapporto sessuale in questione.

L’imputato che aveva intrattenuto rapporti sessuali con la cliente aveva precisato, infatti, che questa fosse la cugina della moglie. Pertanto, a suo avviso, il rapporto sessuale si era verificato non in ambito professionale ma familiare.

Inoltre, la testimone (collaboratrice dello studio in cui lavorava l’imputato) che era stata ascoltata in corso di causa, aveva riferito che, entrando nella stanza dell’imputato, aveva visto che questi aveva i pantaloni abbassati.

La donna aveva affermato che ciò cui aveva assistito era un rapporto sessuale consenziente, “tanto che la presunta vittima non aveva detto nulla e non aveva chiesto aiuto ed era sembrata, invece, imbarazzata per il fatto di essere stata sorpresa nell’atto sessuale”.

Per l’imputato, il fatto che la persona offesa non avesse chiesto aiuto, dimostrava che la stessa non era stata vittima di violenza.

Tuttavia, per i giudici di Cassazione il ricorso dell’imputato è inammissibile.

Secondo la Corte, infatti, le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste a fondamento della penale responsabilità dell’imputato di un determinato reato.

Purché, chiaramente, ne sia verificata la credibilità e l’attendibilità.

Nel caso di specie la Cassazione ha rilevato come la versione dei fatti proposta dall’imputato, ovvero quella del rapporto consenziente, era del tutto incompatibile con quanto riferito dalla persona offesa.

Tale versione era inoltre smentita dallo stesso comportamento dell’imputato. Questi aveva denunciato la persona offesa per diffamazione, affermando che il rapporto sessuale non era mai avvenuto.

Non solo, a suo avviso non sarebbe nemmeno potuto avvenire in quanto, in quel momento, c’erano altre persone in studio.

Per tali motivi, la Corte sostiene che l’imputato si era contraddetto. Circostanza che confermava che, effettivamente, la violenza sessuale c’era stata.

Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dall’imputato. La sentenza di condanna è stata confermata. Il professionista è stato anche condannato al pagamento delle spese processuali.

 

 

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