Un corretta comunicazione tra medico e paziente impone al primo di fornire al secondo tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute tenendo conto anche delle capacità di comprensione dell’interlocutore

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6688/2018, si è pronunciata in relazione al tema della comunicazione tra medico e paziente. Il fatto sottoposto agli Ermellini riguarda una situazione delicata tramutatasi poi in tragedia.

A una donna, che presentava dei noduli al seno sinistro era stato consigliato lo svolgimento di un “completamento diagnostico con mammografia e successiva consulenza senologica”; in una seconda visita la paziente veniva invitata a una “valutazione chirurgica ed eventuale prosecuzione diagnostica”.

La signora, sposata con figli minori, si recò quindi da un radiologo. Il medico, tuttavia, secondo giudici, non avrebbe dato “il giusto valore al riscontro di adenopatie ascellari”; queste “rappresentano un elemento fortemente suggestivo di neoplasia maligna nella mammella omolaterale”.

Il professionista avrebbe tranquillizzato la paziente consigliandole un controllo dopo sei mesi, ritenendo che la situazione non potesse qualificarsi come “un caso clinico di particolare difficoltà”.

La donna morì di cancro al seno nel giro di due anni. I familiari decisero di adire le vie legali e, in sede di giudizio, le Ctu disposte evidenziarono la superficialità del radiologo; in particolare sottolinearono “l’erroneità del suo ‘suggerimento attendista’ di un controllo ecografico e mammografico a sei mesi di distanza”.

Secondo gli esperti, “una mammografia effettuata quando la malattia mammaria era verosimilmente in una fase iniziale, avrebbe con elevata probabilità logica e scientifica permesso una diagnosi precoce”; inoltre “avrebbe offerto reali possibilità di guarigione o di lungo-sopravvivenza”. La struttura, quindi è tenuta a risarcire il danno da perdita di chance e quello morale ai familiari di un paziente deceduto.

Ma i Giudici della Suprema Corte si sono soffermati anche su un altro elemento fondamentale: la corretta comunicazione nei confronti del paziente.

Secondo gli Ermellini, infatti, il referto scritto non esaurisce il dovere di informazione del medico; come stabilito dal codice deontologico, rientra negli obblighi di ciascun medico “il fornire al paziente tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute”; tale attività informativa, peraltro, richiede che si tenga conto “anche delle capacità di comprensione dell’interlocutore”.

La comunicazione tra medico e paziente, sottolineano dal Palazzaccio, non può e non deve esaurirsi solo tramite il referto, strumento comunicativo in linguaggio tecnico. Una informazione completa deve spiegare le caratteristiche di gravità o di rischio di gravità di ciò che è emerso dagli accertamenti; deve inoltre segnalare la presenza di un’eventuale urgenza in modo chiaro per il paziente, considerando il grado di conoscenze scientifiche di questo.

Secondo la Cassazione “l’obbligo di una informazione del paziente da parte del medico che sia effettuata in modo completo e con modalità congrue caratterizza la professione sanitaria, più che logicamente dato che il medico ha come oggetto della sua attività un corpo altrui”.

La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha sviluppato il concetto della necessaria informazione non solo riguardo al cosiddetto “consenso informato” ; l’informazione è necessaria anche “laddove la conoscenza concerne risultati diagnostici cosi da costituire il presupposto dell’esercizio del diritto di autodeterminazione in ordine a scelte successive della persona-paziente”.

L’inadempimento dell’obbligo informativo, quindi, oltre a ledere il diritto all’integrità psicofisica può parimenti ledere il diritto all’autodeterminazione. Autodeterminazione che “deve essere tutelata in modo effettivo e concreto, mediante informazioni trasmesse con modalità adeguate alle caratteristiche della persona che le riceve”.

 

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