Il distacco del lavoratore è disciplinato dall’art. 30 del D.Lgs. 276/03 e consiste in un provvedimento interno del proprio datore di lavoro, che per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa 

Il secondo e terzo comma precisano che in caso di distacco del lavoratore il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del proprio dipendente; e che qualora esso comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato; quanto invece, esso comporti il trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

La vicenda

La Corte di appello di Bologna aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa città, aveva a sua volta, annullato, in sede di opposizione, il licenziamento per giusta causa intimato da un’azienda italiana al proprio dipendente, per rifiuto di quest’ultimo al distacco presso una società controllata in India.

La Corte riteneva insussistente la giusta causa di recesso sul rilievo che il distacco avrebbe comportato, alla stregua delle prove documentali ed orali acquisite al giudizio, un mutamento sostanziale delle mansioni, in presenza delle quali l’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 richiede, quale elemento essenziale, il consenso del lavoratore (nel caso in esame pacificamente non prestato).

Tutto il contrario di quanto eccepito, prima nel merito, poi dinanzi ai giudici di legittimità, dall’azienda datrice di lavoro: col distacco in India, il dipendente avrebbe mantenuto le stesse mansioni lavorative; perciò i giudici della sentenza impugnata avrebbero errato per non avere considerato che il consenso del lavoratore integra un elemento costitutivo della fattispecie legale laddove il distacco, anche nella prospettazione datoriale, implichi un mutamento di mansioni, mentre qualora – come nel caso di specie – il provvedimento non contenga una indicazione di mutamento di mansioni, non è necessario il consenso del lavoratore ed egli non può rifiutarlo, a nulla rilevando che possa essere successivamente accertato, in sede giudiziale, che il distacco avrebbe comportato un mutamento di mansioni.

Nulla da fare. Anche la Corte di Cassazione ha accolto le motivazioni del lavoratore licenziato (Cass. sent. n. 32330/2018).

Il giudizio della Cassazione

L’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 – precisa – si limita a prevedere, quale unico elemento costitutivo della fattispecie legale e sola condizione di legittimità del provvedimento, che l’ordine datoriale abbia il consenso del lavoratore distaccato, nel caso in cui esso “comporti un mutamento di mansioni” rispetto a quelle già svolte presso il soggetto distaccante, mutamento che può essere anche parziale, purché effettivamente idoneo a ledere il patrimonio di professionalità acquisito”.

Ne consegue che il lavoratore, il quale riceva la comunicazione di un provvedimento di distacco, ai sensi della norma richiamata, è gravato dall’onere di fare presente al datore di lavoro il proprio rifiuto ma non anche di rendere note le ragioni che lo sorreggono (o di tenere ferme quelle inizialmente prospettate, ove diverse da un mutamento di mansioni).

È, quindi, irrilevante che il datore, nella lettera di comunicazione del provvedimento, abbia affermato – come nella specie – che il lavoratore avrebbe continuato a svolgere le proprie mansioni presso la controllata (ciò che, secondo la tesi della società ricorrente, renderebbe non necessario il consenso del lavoratore e illegittimo il rifiuto del distacco, senza un accertamento giudiziale), posto che una tale interpretazione avrebbe l’effetto di far coesistere – in esclusiva dipendenza di una dichiarazione del datore di lavoro, di cui peraltro non vi è traccia nel dettato normativo – discipline diverse per casi identici.

Rigettati così i motivi di impugnazione del datore di lavoro, il dipendente potrà essere riassunto, a norme e per gli effetti di quanto disposto dall’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 che prevede, nelle ipotesi ivi indicate, la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, unitamente al pagamento “di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, con il limite di dodici mensilità.

Attenzione però, perché la disposizione citata prevede, anche, che dall’indennità risarcitoria sia “dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative” (nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione).

 

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