In caso di separazione in una famiglia di fatto, quali sono i diritti del convivente rispetto ai conferimenti effettuati  per la realizzazione del progetto di vita comune?

Famiglia di fatto: “Il conferimento effettuato in favore di un convivente di fatto non finalizzato al vantaggio esclusivo di quest’ultimo, ma alla formazione e poi alla fruizione di un progetto comune, non costituisce né una donazione né un’attribuzione spontanea in favore del solo soggetto che se ne è giovato, sicché (…) potrà riconoscersi al depauperato il diritto a recuperare quanto volontariamente versato economicamente e materialmente (…) in piena applicazione e nei limiti dei principi dell’indebito arricchimento di cui all’art. 2041 c.c.”.

La convivenza oggi è un fenomeno assai diffuso. Sempre più italiani ricorrono a unioni di questo tipo. Per la legge è la condizione di “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (art. 1, comma 36, Legge n. 76/2016).

Ma ci si è mai chiesti cosa accade, in caso di separazione da una convivenza more uxorio, ai conferimenti che ciascuno dei partners ha effettuato nei confronti dell’altro per la realizzazione del progetto di vita comune? Quali sono le tutele riconosciute dall’ordinamento?

Di recente la Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza 7 giungo 2018, n.14732, ha affrontato la vicenda di due conviventi (famiglia di fatto), che giunti al capolinea della loro relazione amorosa, avevano chiesto rispettivamente il riconoscimento dei propri diritti.

In particolar modo, a proporre azione di ingiustificato arricchimento dinanzi al giudice civile contro l’ex convivente, era stata la donna la quale aveva chiesto la restituzione di tutte le spese sostenute e l’equivalente in denaro delle prestazioni di lavoro effettuate per la costruzione della dimora comune.

La vicenda

La relazione tra i due era cominciata nel 1987; dopo 10 anni (dal 1997) avevano instaurato una convivenza durata fino al 2001. Entrambi i partners avevano sin da subito contribuito alla costruzione di una casa comune, eretta tra gli anni 1995 e 1997 su un terreno di esclusiva proprietà dell’uomo; cosicché anche l’abitazione era diventata proprietà esclusiva di quest’ultimo. (principio di accessione, art. 934 c.c.).

Senonché allo scioglimento della convivenza, l’uomo aveva trattenuto con sé tutti gli arredi della casa acquistati durante la convivenza, i risparmi versati da entrambi su un conto corrente cointestato ed altri beni.

Si costituiva in giudizio il convenuto, rappresentando che il terreno su cui era sorta la casa di abitazione comune era di sua esclusiva proprietà e pertanto anche quest’ultima fosse entrata di diritto nel suo patrimonio. Aggiungeva altresì che le contribuzioni al menage familiare della donna, in denaro o in lavoro, erano state effettuate a titolo gratuito, in adempimento di un dovere morale, ed erano pertanto irripetibili.

Il processo.

Il primo grado tutte le domande dell’attrice furono rigettate. Molto meglio in appello.

I giudici di secondo grado, richiamata la giurisprudenza maggioritaria in materia, avevano affermato che nell’ambito di una famiglia di fatto, le reciproche dazioni in denaro o in lavoro che vanno a vantaggio del complessivo menage familiare trovano il loro fondamento in una obbligazione naturale, ovvero sono erogate nella convinzione, esistente in capo ai partners, di adempiere ad una obbligazione fondata su doveri morali o sociali (e quindi non sono di norma ripetibili), purché esse si mantengano nei limiti di proporzionalità e di adeguatezza, parametrati alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti (posizione espressa da Cass. n. 11330 del 2009; Cass. n. 3713 del 2003), ma al tempo stesso escludevano che nella fattispecie in esame, si trattasse di obbligazioni naturali perché:

  • i due all’epoca in cui la donna eseguì le elargizioni erano fidanzati ma non conviventi e quindi non formavano ancora una famiglia di fatto pertanto non sussisteva alcuna obbligazione naturale in capo all’attrice che giustificasse la non ripetibilità di quei conferimenti;
  • si trattava di dazioni consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partners.

Cosicché condannavano il convenuto alla restituzione di tutti i conferimenti in denaro elargiti dall’ex convivente. Accoglievano inoltre, la domanda dell’attrice al riconoscimento di una somma a titolo di indennità per le ore di lavoro prestate negli anni, il sabato e la domenica, nel suo tempo libero, per la costruzione della casa, in accoglimento dell’azione di indebito arricchimento.

La soluzione della controversia e le questioni giuridiche di tale famiglia di fatto

La vicenda è interessante perché coinvolge due temi assai dibattuti: la famiglia di fatto e le obbligazioni naturali, intendendo per queste ultime quelle elargizioni che una parte fa all’altra (come spesso accade all’interno di un rapporto di convivenza) senza che vi sia un obbligo giuridico ma soltanto una convinzione morale. Ciò esclude il diritto del debitore di richiederne la restituzione in forza del principio della c.d. soluti retentio.

Una delle questioni giuridiche maggiormente dibattute nell’ambito della convivenza “more uxorio” (famiglia di fatto), concerne proprio la gestione dei rapporti patrimoniali tra i due conviventi e dei relativi mezzi di tutela a disposizione di entrambi in caso di controversia.

La giurisprudenza consolidata ritiene irripetibili i versamenti vicendevoli effettuati in costanza di convivenza. La Cassazione, infatti, dopo aver abbandonato l’iniziale sfavore con cui vedeva il rapporto di convivenza, ed equiparato quest’ultimo al rapporto coniugale, del quale condivide i medesimi presupposti morali, incluso l’obbligo di assistenza reciproca, configura le elargizioni effettuate spontaneamente quali obbligazioni naturali ai sensi dell’art. 2034 c.c.

Occorre sin da subito premettere che all’interno dell’azione di indebito arricchimento, la volontarietà del conferimento è idonea ad escludere il diritto alla ripetizione di quanto spontaneamente pagato, proprio perché (o come anche si usa dire, nella misura in cui) essa è spontaneamente indirizzata ad avvantaggiare il soggetto in cui favore viene effettuato il conferimento.

Si può dire che essa configura una volontaria attribuzione patrimoniale a fondo perduto in favore di una determinata persona, che il conferente intende sostenere o aiutare economicamente in una sua attività o iniziativa, o esigenza.

A tal proposito l’indagine che il giudice deve compiere per accertare se si trova di fronte ad una obbligazione naturale è duplice. Da un lato egli deve accertare se, nel caso sottoposto al suo esame, sussiste un dovere morale o sociale, in rapporto all’etica corrente. Dall’altro deve valutare se questo dovere sia stato adempiuto mediante una prestazione che presenti carattere di oggettiva proporzionalità ed adeguatezza in rapporto a tutte le circostanze del caso. (RICCIO)

Facendo applicazione di questi principi i giudici della Corte d’appello si sono concentrati nel verificare se le prestazioni effettuate spontaneamente dalla donna fossero state fatte in favore esclusivo del partner o in vista della realizzazione di un progetto di vita comune e se, in quest’ultimo caso, fossero riconducibili all’alveo delle obbligazioni naturali non ripetibili.

Ebbene con certezza i giudici dell’appello hanno escluso che si trattasse di obbligazioni naturali posto che all’epoca in cui furono eseguite i due erano solo fidanzati e non ancora conviventi e dunque non sussisteva alcuna obbligazione naturale in caso alla donna tale da giustificare la non ripetibilità di quei conferimenti; ed inoltre, si trattava di esborsi consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità ed adeguatezza sopra dette. Di talché era legittima la domanda di restituzione dell’indebito.

Alla stessa conclusione giungono anche i giudici della Suprema Corte, i quali hanno affermato quanto segue: “nel nostro caso il conferimento di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che doveva essere la dimora comune, è stato senz’altro volontario da parte della donna (ed effettuato peraltro quando essa ancora non era convivente, ma proprio in vista della instaurazione della futura convivenza). Esso però non è stato effettuato dalla donna in favore esclusivo del partner, per aiutarlo a costruire la sua casa, bensì è stato effettuato dalla donna in favore ed in vista della costruzione di un futuro comune, cioè per costruire un immobile che poi avrebbero goduto insieme, all’interno del loro rapporto, per consentire ad entrambi di coabitare in una casa che avevano progettato e costruito anche materialmente insieme, nell’ambito e per la realizzazione di un progetto comune. In ragione della proprietà esclusiva del terreno e dell’operatività del principio dell’accessione, quel conferimento è andato di fatto ad integrare un bene che è entrato, per le regole che disciplinano i modi di acquisto della proprietà, nella proprietà esclusiva dell’ex partner. Ciò non fa venir meno il fatto che la volontarietà del conferimento fosse indirizzata non al vantaggio esclusivo del partner, ma alla formazione e poi alla fruizione comune di un bene e non costituisse né una donazione né una attribuzione spontanea in favore del solo soggetto che se ne è giovato. Nel momento in cui lo stesso progetto dell’esistenza di un patrimonio e di beni comuni è venuto meno, perché si è sciolto il rapporto sentimentale tra i due ed è stato accantonato il progetto stesso di vita in comune, al convivente che non si è preventivamente tutelato in alcun modo non potrà essere riconosciuta la comproprietà del bene che ha collaborato a costruire con il suo apporto economico e lavorativo, ma avrà diritto a recuperare il denaro che ha versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate volontariamente, per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento.

Pertanto, i contributi, in lavoro o in natura, volontariamente prestati dal partner di una relazione personale per la realizzazione della casa comunque non sono prestati a vantaggio esclusivo dell’altro partner e pertanto non sono sottratti alle regole della ripetizione dell’indebito”.

 Avv. Sabrina Caporale

 

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