Con la recente sentenza n°2782/16 il Tribunale di Roma, XIII Sezione, ha avuto modo di pronunciarsi in tema di danno alla capacità sessuale e responsabilità medica. In particolare, è stata riconosciuta fondata la richiesta di risarcimento danni avanzata da una donna, la quale era stata sottoposta ad intervento di isterectomia totale a seguito di prolasso genitale totale, ed alla quale era stato asportato tanto tessuto, da ridurre la profondità del canale vaginale a circa due centimetri.

Interessanti sono le motivazioni poste a base della decisione. In particolare, dopo aver analizzato i presupposti legali della responsabilità medica e delle obbligazioni che regolano il rapporto medico-paziente, il Giudice si sofferma sull’analisi della CTU, rilevando la correttezza sia del tipo di intervento praticato che delle tecniche utilizzate. Tuttavia, fa notare il consulente, è più che opinabile la scelta del chirurgo di procedere alla resezione di una ampissima parte di tessuto vaginale, tale da ridurre in maniera assoluta la capacità del canale vaginale e, quindi, tale da rendere assolutamente impossibile qualsiasi rapporto sessuale.

Un intervento corretto, almeno in apparenza, rispetto alla patologia, rispetto alla tecnica di esecuzione, rispetto alla capacità curativa in riferimento alla patologia stessa, ma che, tuttavia, presenta una conseguenza capace di incidere negativamente non sulla salute ma sulla vita relazionale della paziente. Il confine, si badi, è sottile. Ciò che deve valutarsi è la responsabilità del medico che ha eseguito un intervento che è stato effettivamente risolutivo, che ha, di conseguenza, operato curando la patologia con successo ed in maniera definitiva, e che, tuttavia, nel risolvere il problema di salute, ne genera un altro di grande rilevanza costringendo per il resto della vita la propria paziente a non avere una vita sessuale.

Ed è a questo punto che il Giudice rileva un particolare di fondamentale importanza, ovvero, rileva una totale violazione del dovere di informazione stante l’assenza in cartella del modulo di consenso informato. In base a tale particolare, la responsabilità della struttura sanitaria si manifesta in maniera piena e la correttezza tecnica degli interventi perde di rilevanza.

Di più! Il CTU, rilevava una incompletezza della documentazione clinica laddove nella stessa non risultavano eseguite le doverose indagini pre-operatorie. La mancata effettuazione di una visita ginecologica che attestasse lo stato pre-operatorio, la assenza di esami diagnostici strumentali, non permettono un adeguato confronto fra la situazione pre-operatoria e quello post-operatoria con la conseguenza che, in ossequio ai più recenti orientamenti della Suprema Corte, la incompletezza documentale non può che tradursi nella impossibilità di ricostituzione del nesso eziologico fra l’agire del medico e il danno lamentato dal paziente. Di tale impossibilità, tuttavia, non può farne le spese il paziente, con la conseguenza che dalla detta incompletezza, della quale è responsabile la struttura, potrà ritenersi desunto il nesso eziologico stesso.

In riferimento alla mancanza di consenso, rileva il Giudice, che le allegazioni offerte dalla parte, unitamente alla verifica peritale effettuata, consentono di ritenere “più probabile che non” il fatto che, se opportunamente informata, la paziente, che prima dell’intervento aveva una piena capacità sessuale e procreativa (madre di tre figli), avrebbe potuto scegliere di non intervenire, ovvero, avrebbe potuto scegliere interventi alternativi a quello poi subito.

Tale violazione del diritto di autodeterminazione, rende il danno biologico subito interamente risarcibile e ne permette un adeguamento in aumento considerata la particolare delicatezza ed importanza, a livello psicologico e morale, del bene danneggiato.

Avv. Gianluca Mari

 

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