Una interessante sentenza della Tribunale di Roma fa il punto in merito alla possibilità di utilizzare come prova per il licenziamento i messaggi su WhatsApp

La sezione lavoro del tribunale di Roma, con la sentenza 3745/2018, ha fatto il punto riguardo alla possibilità di utilizzare come prova per il licenziamento dei messaggi su WhatsApp.

Chiedersi se i messaggi su WhatsApp possano nell’ambito di un processo, essere impiegati come prova non è, infatti, una domanda peregrina.

La tecnologia e l’uso massiccio che facciamo di dispositivi come gli smartphone e di app come quella di messaggistica istantanea, hanno cambiato molto la nostra vita e, inevitabilmente, hanno dei risvolti anche in questo ambito.

Certo, è vero che le schermate dei telefonini sono difficilmente acquisibili in un processo. Tuttavia, è normale chiedersi se i messaggi su WhatsApp possano avere un peso in un procedimento.

Su tale questione ha fatto luce la sentenza in commento fornendo precisazioni molto interessanti.

La vicenda

Nel caso di specie, un autista di scuolabus aveva inviato un messaggio tramite Whatsapp al proprio datore. In esso dichiarava: “Non mi interessano le scuole”, dunque il servizio di accompagnamento dei bambini in pullman. E “comincio a cercare altrove”.

Il lavoratore è dunque incastrato da ciò che egli stesso scrive.

Messaggi che, peraltro, non sono mai stati contestati dall’autore. A seguito di tali messaggi su Whatsapp, tra i due segue un alterco orale sfociato nel licenziamento del dipendente.

Quest’ultimo decide di fare causa.

Tuttavia, il dipendente non ottiene il risarcimento per l’asserito licenziamento orale perché i messaggi inviati al legale rappresentante della società mostrano piuttosto che è lui a essersi dimesso.

Non solo. È del tutto assente la prova che fra i due vi sia stato un alterco sfociato nel provvedimento espulsivo.

Pertanto, il giudice ha deciso di accogliere solo in parte la domanda risarcitoria dell’autista

Vale a dire che egli ha ottenuto il riconoscimento della natura subordinata per il breve rapporto di lavoro che la società di trasporti privati e dunque le dierenze retributive in base al Ccnl logistica per oltre 5.300 euro.

Ma, precisa la sentenza, non consegue la declaratoria di nullità del recesso e il ripristino del rapporto. E ciò perché nessun licenziamento c’è stato, almeno sulla base delle prove che il giudice ha potuto valutare.

L’autista ha poi portato vari testimoni che confermano di averlo visto alla guida dei bus di proprietà della srl.

Uno di loro, ha riferito che l’interessato è stato licenziato per una lite sul datore sulla retribuzione dei pasti in orario di lavoro. E un altro motivo decisivo potrebbe essere l’incidente stradale avvenuto col mezzo aziendale, tanto che dalle retribuzioni vanno detratti mille euro per il risarcimento del sinistro ammesso dallo stesso lavoratore.

Tuttavia, nessuno dei testimoni dichiara di aver assistito personalmente a un dialogo datore-dipendente qualificabile come licenziamento orale.

Pertanto, il lavoratore è stato incastrato da ciò che egli stesso ha scritto su WhatsApp al datore.

Non emergendo la prova orale del recesso datoriale, i messaggi su Whatsapp dimostrano che l’autista rinunciava in quanto insoddisfatto delle mansioni che svolgeva.

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