La giornalista di «Vanity Fair» Tamara Ferrari vuole far luce sul caso di un’anziana donna incontrata per caso in una casa di riposo a Milano. Filippa è anziana e sola: «Chi doveva aiutarmi, ha venduto la mia casa». Ecco come le hanno «rubato la vita». 

«Sono nata in Sicilia, in provincia di Enna, ma ho trascorso gran parte della mia vita a Milano. Non ho studiato, non so leggere e scrivere, ma con i soldi me la cavo bene. Mi sono sposata, ho avuto due figli. Con mio marito comprammo un appartamento in una via centrale di Milano. Si trovava in una casa di ringhiera e il bagno era in comune con gli altri condomini. Con il passare degli anni, le famiglie che abitavano nel palazzo si sono fatte il bagno in casa. Quello comune, alla fine, lo utilizzavo solo io. Un giorno, mio marito era già morto, i condomini mi dissero che potevo comprare il bagno con 5 mila euro. Cominciai a mettere da parte i soldi per acquistarlo, e anche per costruire una stanzetta in più dove poter sistemare una badante. Percepivo la pensione di mio marito, e pensavo che con quei soldi avrei potuto permettermi un aiuto in casa.

La badante mi sembrava la soluzione ideale, poiché nel tempo i rapporti con i miei due figli si erano incrinati e ormai non ci sentivamo più». Filippa riesce a mettere da parte un gruzzoletto. «Non avevo il conto in banca, i soldi li tenevo nel materasso. Andai dall’amministratore di condominio e ci accordammo per la data in cui finalmente avrei comprato il bagno. Era la fine del 2009. La sera prima della compravendita, tolsi i soldi da dentro il materasso. Poi non so che cosa è successo». Forse un’irruzione di ladri nel suo appartamento, forse un malore.

Filippa venne ritrovata priva di sensi nel suo letto dai pompieri, allertati dai vicini preoccupati perché non la vedevano. Fu portata in ospedale, dove rimase fino a quando non fu fuori pericolo. Da lì la portarono nella casa di riposo dove ancora si trova. «Non ricordavo nulla di quello che mi era accaduto, anche se sono convinta che qualcuno, che sapeva che tenevo i soldi nel materasso, sia entrato per derubarmi. Volevo tornare a casa, ma il personale della casa di riposo mi rispondeva che le mie condizioni di salute ancora non mi permettevano di vivere da sola in un appartamento al quarto piano senza ascensore. “Appena starà meglio, la dimetteremo”, mi dicevano».

Alle assistenti sociali, e al personale della casa di cura, Filippa racconta della sua piccola casetta, e dei soldi scampati al furto. «Mi accompagnarono a casa a prenderli. Volevo portar via anche dei vestiti, ma mi dissero che saremmo tornati un’altra volta, che quel giorno non c’era più tempo». «Qualche giorno dopo le assistenti sociali mi dissero che, poiché sono analfabeta, per legge dovevo accettare di essere seguita da un amministratore di sostegno. Mi fecero capire che si trattava di un obbligo previsto dalla legge per le persone che come me non sanno leggere né scrivere, e aggiunsero: «non si preoccupi, l’amministratore di sostegno curerà i suoi interessi».

Filippa, che fino a quel momento si era gestita la vita da sola, si ritrova «vittima del sistema», o – molto più probabilmente – di un inganno. «L’amministratore di sostegno mi convinse ad aprire un conto in banca. Disse che non potevo più tenere i soldi nel materasso. Mi accompagnò nell’istituto di credito vicino all’ospizio e aprii il conto. Il giorno dopo, siccome non l’avevo mai fatto ed ero curiosa di sperimentare, mi feci accompagnare per prelevare 50 euro. La bancaria mi disse che non potevo prelevare nulla senza l’autorizzazione dell’amministratore di sostegno. Capii che c’era qualcosa che non andava».

Filippa comincia a lamentarsi, e a insistere di voler tornare a casa. A ogni sua protesta, le assistenti sociali e i dipendenti della casa di riposo rispondono in modo sempre più sgarbato. Poi un giorno, siamo ormai nel 2011, viene accompagnata nell’ufficio del giudice tutelare. «Gli spiegai che ero stanca di vivere nell’ospizio, che era passato troppo tempo, che rivolevo la mia libertà. Che è vero che sono analfabeta, ma fino ad allora avevo sempre vissuto senza bisogno di persone che “curassero” i miei interessi. E che ero stanca di dover dividere la stanza con un’altra persona, io che da anni ormai vivevo bene da sola. Il giudice insisteva che non potevo tornare a stare in un palazzo senza ascensore. Alla fine mi disse: “Signora, ma perché non fa una cosa? «venda la sua casa e, con il ricavato, ne affitti una al piano terra».

Ero talmente sfinita, che accettai». L’amministratore di sostegno si mette all’opera. «Io, intanto, chiedevo che mi accompagnassero a prendere dei vestiti, poiché ne avevo bisogno. Ma niente, e intanto il tempo passava, e loro erano sempre più maleducati con me. Un giorno, ricordo che era il novembre del 2011, ebbi la percezione che fosse successo qualcosa che mi riguardava, ma nessuno mi disse niente, e non ci pensai più». Passano così sei mesi. Poi, ai primi di aprile del 2012 Filippa viene portata in un ufficio dove ci sono la responsabile della casa di riposo, l’amministratore di sostegno, il medico dell’ospizio e le assistenti sociali. «Poiché erano stanchi delle mie continue richieste di vedere casa, mi dissero che era inutile continuare a insistere, perché tanto non c’era più niente. Chiesi che cosa intendevano dire con quel “non c’è più niente”. Mi risposero: «La casa è stata venduta». (Continua su Vanity Fair)

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