Per la Cassazione, il contesto in cui si è concretizzato il reato di minaccia, ovvero le provocazioni subite dalla persona offesa, non giustificano la reazione dell’imputata

Un bimbo urta un auto con la sua bicicletta. La donna alla guida lo rimprovera prendendolo anche per l’orecchio e suscitando la reazione della madre del ragazzo, che la aggredisce cagionandole la rottura degli occhiali. Quest’ultima finisce davanti al giudice di pace, che ne afferma la responsabilità per i reati di percosse e di minaccia. La sentenza viene confermata dal Tribunale di Reggio Emilia che, in parziale riforma, riduce la multa inflitta e la condanna al risarcimento dei danni morali.

L’imputata propone quindi ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge in relazione all’art. 612 cod. pen., in quanto – a suo avviso – le espressioni pronunciate sarebbero state prive di reale efficacia minacciosa.

La sentenza impugnata, in particolare, avrebbe omesso di considerare il contesto nel quale erano maturati i fatti, la conflittualità pregressa, il fatto che la donna finita a giudizio fosse stata provocata, ingiuriata e anche schiaffeggiata dalla persona offesa, che aveva reagito con un sorriso alle frasi pronunciate.

L’idoneità della minaccia non poteva essere astratta ed avulsa dalla considerazione del contesto, e dell’offensività concreta del fatto, altrimenti non sussisterebbe differenza tra il fatto penalmente rilevante, la minaccia grossolana e l’espressione triviale.

Con altro motivo lamentava come il danno non patrimoniale fosse stato liquidato mediante valutazione equitativa, nonostante non vi fosse prova dell’esistenza dello stesso, anche in considerazione della dichiarazione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.

La Corte di Cassazione, tuttavia, con la sentenza n. 50946/2019 ha ritenuto inammissibile il ricorso.

Le doglianze concernenti l’asserita carenza di offensività delle espressioni minacciose, in considerazione del contesto reciprocamente litigioso e della provocazione della persona offesa, per gli Ermellini sono manifestamente infondate.

E’ infatti pacifico che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 cod. pen. “la minaccia va valutata con criterio medio e in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima, il cui eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie”.

Anche in relazione al secondo motivo del ricorso la Suprema Corte ha chiarito che,  “in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l’obbligo motivazionale mediante l’indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l’ammontare del risarcimento”.

La redazione giuridica

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