Un medico è stato rinviato a giudizio per omicidio per il caso di una sua paziente operata al cuore e deceduta dopo un trasferimento

Un medico romano di 60 anni è stato rinviato a giudizio per la morte di una sua paziente, operata al cuore e deceduta dopo un trasferimento. L’accusa è pesantissima: omicidio volontario aggravato da premeditazione e futili motivi nonché falso ideologico per la manomissione della cartella clinica.
Il professionista, fino all’inizio di dicembre chirurgo dell’ospedale Civile di Brescia e primario della cardiochirurgia universitaria, si è ora dimesso da quest’ultimo incarico proprio per la vicenda in questione.

“Non so dove sbolognarla”. Così diceva al telefono con un collega il dottor C.M, il medico ora rinviato a giudizio per la morte di una paziente operata al cuore e deceduta dopo un trasferimento.

La vittima, una commerciante di Legnago (Verona) di 57 anni, era stata operata dal medico l’8 febbraio del 2016 per un problema cardiaco. Ma dalla sala operatoria era uscita in fin di vita. La donna era poi morta l’11 febbraio nell’ospedale di Padova dove C.M. aveva deciso di farla trasferire per un eventuale trapianto di cuore.
Per questa vicenda la Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio per il medico (il gip ha respinto una richiesta di misura cautelare) accusato di omicidio volontario aggravato da premeditazione e futili motivi nonché falso ideologico per la manomissione della cartella clinica.
Il medico, secondo l’accusa, avrebbe dichiarato di essere stato in sala operatoria nel corso dell’intervento mentre invece era nel suo ufficio e all’università. Una vicenda scoperta, quasi per caso, nell’ambito di indagini che riguardavano un’ipotesi di peculato, dalle quali non era emerso nulla.

Il sostituto procuratore Ambrogio Cassiani, subentrato nell’incarico a un collega, aveva ripreso in mano il faldone degli atti e aveva notato l’intercettazione, da cui poi sono partiti i rilievi.

Nel corso dell’intervento chirurgico di routine per chiudere un foro fra due atri cardiaci qualcosa era andato storto. La signora all’uscita dalla sala operatoria era stata collegata all’Ecmo, l’apparecchiatura per la circolazione extracorporea utilizzata in caso di una grave insufficienza cardiaca o respiratoria.
Le condizioni della donna erano però precipitate e C.M. aveva deciso di staccare la macchina cercando di far trasferire la donna prima all’ospedale di Bergamo. Qui però la struttura aveva detto di no al suo arrivo, e quindi a Padova.
Per la Procura di Brescia, quindi, il medico avrebbe preso tale decisione per non correre il rischio di fare morire la donna nel proprio reparto. La conseguenza sarebbe stata la perdita di credibilità all’esterno della struttura ospedaliera.

E non è tutto. Il professore, perfettamente consapevole della situazione critica della paziente, non avrebbe avvisato i colleghi delle sue condizioni.

Tanto che gli stessi medici del Veneto non avrebbero chiesto a C.M. di vedere la cartella clinica. Inoltre, prima di farla uscire dal reparto, il medico bresciano avrebbe tentato di far ripartire la circolazione sanguigna della paziente.
Il tutto ignorando volutamente “tutte le evidenze cliniche che rendevano la procedura in questione impraticabile”, dice la Procura. I
Un “trucco” per fingere che la donna fosse in condizioni stabili, tali da farla partire per Padove dove sapeva bene che sarebbe morta. Eppure, un anestesista e un ecografista del Civile avevano segnalato la presenza di un edema polmonare e di una grave disfunzione nel cuore della paziente. Ma il medico, pur di disfarsene, avrebbe ignorato tutto. Da qui, l’accusa di omicidio.
 
 
 
 
 
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