Patologia professionale e danno differenziale (Cass. civ., sez. lav., 24 agosto 2023, n. 25191).

Nella patologia professionale, poiché conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, si può connotare sia il danno morale, sia il peggioramento della vita quotidiana.

Il dipendente di una ditta di trasporti chiedeva il risarcimento del danno conseguente a intervento chirurgico di bypass a seguito del quale veniva, in un primo momento, assegnato a lavori amministratici, e poi, giudicato non idoneo in via definitiva alle mansioni lavorative sino ad allora svolte, con cessazione del rapporto di lavoro.

Il Tribunale rigettava la domanda, successivamente la Corte d’Appello dichiarava il diritto dell’uomo al risarcimento del danno differenziale da patologia professionale, da cui detraeva l’importo indennizzabile dall’INAIL.

La Corte territoriale sosteneva che era stato accertato il nesso di causa tra l’attività lavorativa effettuata, quella di autista, e l’evento patito, con conseguente intervento cardiochirurgico. Sosteneva, inoltre, che in ragione delle condizioni di lavoro pesanti, dei turni, degli orari, dell’eccessivo carico di lavoro, del costante superamento dell’orario fosse integrata anche la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., da cui discendeva la liquidazione del danno differenziale.

 Il datore di lavoro ricorre in Cassazione e il lavoratore pone ricorso incidentale.

Quest’ultimo lamenta il mancato riconoscimento del danno morale e la motivazione inesistente, deducendo che con l’appello incidentale aveva criticato la sentenza del primo Giudice che rigettava il danno morale per mancanza di prova.

La Suprema Corte evidenzia che la Corte di appello sul punto ha sostenuto che «non può infine aggiungersi alcun ulteriore importo a titolo di danno cosiddetto esistenziale poiché in proposito non è stato dedotto alcun elemento di prova, nè ricorrono le condizioni per una personalizzazione del danno sotto ogni profilo rilevante attinente ai riflessi sulla integrità psicobiologica, al condizionamento e al pregiudizio nello svolgimento delle sue attività areddituali, ad ogni ulteriore aspetto morale». Ma con tale motivazione non risulta spiegata la ragione del diniego del danno morale.

Viene ricordato che il danno morale, dà rilievo ai pregiudizi del danno alla persona che attengono alla dignità e al dolore soggettivo, ovvero a quei pregiudizi interiori rilevanti sotto il profilo del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura e della disperazione che sono differenti e autonomamente apprezzabili sul piano risarcitorio rispetto agli effetti dell’illecito incidenti sul piano dinamico-relazionale, che si dipanano nell’ambito delle relazioni di vita esterna.

In caso di lesione di interessi costituzionalmente protetti, deve essere rigorosamente valutato sia l’aspetto interiore del danno, quanto il suo impatto modificativo in peggio con la vita quotidiana, atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Sul Giudice di merito, pertanto, incombe l’obbligo di tenere conto a fini risarcitori di tutte le conseguenze in peius derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, e con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici.

Nel caso in esame i valori costituzionalmente protetti del lavoratore risultano senz’altro compromessi dall’illecito nella misura in cui questo ha impedito al lavoratore lo svolgimento di qualunque attività lavorativa e della vita di relazione.

Per tali ragioni la decisione viene cassata.

Avv. Emanuela Foligno

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