Confermato il provvedimento nei confronti di un dipendente dell’Agenzia delle Entrate per violazione del segreto di ufficio e di altri obblighi previsti dal contratto collettivo

E’ legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente per violazione del segreto di ufficio. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 28796/2017 pronunciandosi sul ricorso presentato da un ex dipendente dell’Agenzia delle Entrate.

Il lavoratore era stato licenziato dopo un procedimento disciplinare per la violazione di una serie di obblighi previsti dal contratto collettivo. Tra questi, il segreto di ufficio e il divieto di utilizzo a fini privati delle informazioni di cui disponeva per motivi di ufficio.

La decisione dell’Ente era stata impugnata, ma l’istanza era stata respinta sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello. Il Giudice di secondo grado, in particolare,
aveva ritenuto appurato che il lavoratore, dopo aver effettuato l’accesso al sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate, avesse “divulgato a terzi le notizie relative a posizioni estranee al suo lavoro ed al gruppo dal medesimo coordinato”.

Per la Corte territoriale, quindi, il licenziamento era stato proporzionato ai fatti contestati.

La condotta era stata ritenuta “idonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, vincolo che una sanzione meramente conservativa non avrebbe potuto ricostituire”.

Il dipendente si era quindi rivolto alla Suprema Corte lamentando la non corretta applicazione corretta applicazione della normativa da parte del Giudice di appello. Il ricorrente si riferiva, nello specifico, all’art. 2016 c.c. e alle disposizioni del contratto collettivo di categoria.

Le argomentazioni proposte, tuttavia, non hanno trovato accoglimento da parte dei Giudici de Palazzaccio che hanno respinto il ricorso in quanto infondato.

La Cassazione ha infatti stabilito che “tra gli obblighi imposti al lavoratore” vi era quello di “rispettare il segreto d’ufficio”.

Egli, inoltre, era tenuto a “non utilizzare a fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni d’ufficio”. Infine,  non doveva “valersi di quanto è di proprietà dell’Agenzia per ragioni non di servizio”.

Nel caso esaminato, gli Ermellini hanno ritenuto che il Giudice a quo, nel formulare il giudizio di proporzionalità e di gravità della condotta” avesse, del tutto adeguatamente tenuto conto delle funzioni affidate al lavoratore, nonché “della natura dei dati divulgati all’esterno”.
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