Respinto il ricorso di un uomo accusato di aver compiuto atti osceni nei confronti di una collega nel corso di una riunione

E’ legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che commette atti osceni durante una riunione di lavoro. E’ quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 13979/2018.

I Giudici del Palazzaccio si sono pronunciati sul ricorso presentato da un lavoratore accusato di aver tenuto un atteggiamento indecoroso nei confronti di una collega.

L’uomo si era rivolto alla giustizia per chiedere l’illegittimità del provvedimento ma sia in primo grado che in appello la sua istanza era stata rigettata.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte il dipendente lamentava la mancanza di prove circa l’addebito. A suo dire, infatti, le dichiarazioni rese dalla collega sarebbero state inattendibili.

La donna aveva denunciato il fatto circa un mese dopo e successivamente si era costituita parte civile nel processo penale scaturito dalla querela.

I Giudici Ermellini, tuttavia, non hanno ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte dal ricorrente, ritenendole infondate. A loro avviso, la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., in tema di onere della prova, si sarebbe configurata solo ove il giudice avesse attribuito tale onere a una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate dalla norma. “Non anche quando, a seguito di incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere”. In questo caso, infatti, vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova.

Per la Cassazione non possono neppure ritenersi violati gli artt. 115 e 116 c.p.c. per un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito. Ciò si verifica solo allegando che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali. O ancora che abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova elementi di prova soggetti invece a valutazione.

La censura del ricorrente quindi, si risolve piuttosto “in un’inammissibile contestazione dell’accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale”.

 

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