Illegittima la sanzione espulsiva nei confronti del lavoratore che, durante un periodo di infortunio, svolga altra attività lavorativa se questa non ha un ruolo aggravante della patologia

Era stato destituito dal posto di lavoro sulla base di una contestazione disciplinare. Nello specifico, durante un periodo di infortunio, aveva svolto, senza alcuna autorizzazione da parte dell’azienda, altra attività lavorativa in un hotel, pregiudicando e ritardando la guarigione.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento e il Tribunale gli aveva dato ragione, dichiarando la nullità della sanzione espulsiva e disponendo il reintegro. La decisione era stata confermata anche in sede di appello. La Corte territoriale aveva infatti rilevato, sulla base della disposta ctu, che i compiti svolti non avevano avuto alcun ruolo aggravante rispetto alla patologia.

Da qui il ricorso della società datrice davanti alla Suprema Corte di Cassazione. L’azienda lamentava, tra gli altri motivi, che i Giudici del merito non avessero tenuto conto dei ripetuti spostamenti del dipendente, in motocicletta e con auto sportiva, effettuati durante la convalescenza. Una condotta che, a detta della ricorrente, ne avrebbe peggiorato le condizioni di salute.

Nei primi due gradi di giudizio, inoltre, non si sarebbe tenuto conto dell’aliunde perceptum per ridurre il risarcimento al dipendente.

La sezione lavoro della Suprema Corte, tuttavia, con l’ordinanza n. 21517/2018 ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte, respingendo il ricorso in quanto infondato.

Per gli Ermellini, il fatto di aver girato in moto o su un’auto sportiva costituiva una condotta non apprezzabile sotto il profilo disciplinare. Essa non era infatti indicata espressamente nella contestazione.

Quanto allo svolgimento di altra attività lavorativa la Cassazione, invece, ha ricordato che la malattia per infortunio di per sé non esclude tale possibilità. Ciò a condizione che non si determini un ritardo nella guarigione o aggravamento. Tale situazione, tuttavia, era stata esclusa in appello e pertanto non poteva essere censurata in sede di legittimità.

Per quanto concerne, infine, l’aliunde perceptum, i Giudici del Palazzaccio hanno affermato che il lavoratore aveva dichiarato di essere socio di capitale della società presso cui aveva prestato servizio durante il periodo dell’infortunio. Come tale, pertanto, percepiva il reddito derivante da tale partecipazione. Di conseguenza il reddito che ne derivava non era un reddito da lavoro bensì un reddito da capitale che esisteva anche prima del licenziamento. Ciò escludeva che potesse considerarsi percepito grazie alla perdita del posto di lavoro.

 

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