Non è dovuto l’assegno di divorzio all’ex coniuge che partecipa alla divisione degli utili di impresa del marito

La vicenda origina dalla storia personale di divorzio di due coniugi e dalle pretese di mantenimento della moglie nei confronti dell’ex marito.

La sentenza è importante perché chiarisce alcuni aspetti spigolosi e molto spesso sottovalutati in materia di assegno divorzile.

La vicenda

Uno dei due coniugi era un grande imprenditore nel settore della ristorazione. Il valore del suo patrimonio, anche di natura immobiliare, sia in proprio, sia in quanto partecipante a una società di capitali, si aggirava intorno ai due milioni di euro; con un reddito annuo di circa 75.000/80.000 euro.

La donna invece, sua ex moglie, percepiva un reddito annuo di poco superiore agli 11.000 euro, con un patrimonio che a mala pena arrivava ai 300.000 euro.

Si trattava, a ben vedere, di una evidente sperequazione tra i due patrimoni.

Nel corso del giudizio di divorzio era emerso che la maggior parte dei proventi del ricco imprenditore derivavano proprio dall’attività di ristorazione e dagli immobili della sua società, che erano stati acquistati negli anni, grazie suo al lavoro e,non certo a quello della  ex moglie.

Quest’ultima non era d’accordo. Ella sosteneva, infatti, di aver sempre collaborato in maniera diretta e continuativa nella gestione dell’attività di ristorazione del marito seppure senza alcuna formalizzazione di rapporti né subordinati né associativi.

Se così fosse, avrebbe diritto quest’ultima alla ripartizione degli utili di impresa? E in tal caso cosa ne sarebbe del suo assegno divorzile?

Sono queste le domande a cui cercano di rispondere i giudici della Cassazione nella sentenza in commento (sent. n. 2234/2018).

L’orientamento che viene richiamato dai giudici di Piazza Cavour è il seguente: all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche alla natura perequativo-compensativa che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass. sez. un. sent. n. 18287/2018).

Nel caso in esame era emerso che tra i due coniugi, all’esito dello scioglimento del loro rapporto coniugale, non vi fossero “poste” da compensare. Nel corso del procedimento era emerso infatti, che l’uomo, per tutto il periodo della loro relazione coniugale, si era impegnato (con la propria attività commerciale) anche al fine di consentire alla propria moglie di costituirsi un’autonomia economica. E così accadde. La donna era autosufficiente dal punto di vista economico perciò la deduzione addotta in giudizio per cui il venir meno del vincolo coniugale le avrebbe cagionato un ingiusto squilibrio degno di essere economicamente compensato e bilanciato dall’altro coniuge, non poteva essere in alcun modo giustificabile.

Il principio che deve ricorrere in questi casi, affermano i giudici della Suprema Corte è quello che impone di valutare in concreto l’apporto dei coniugi alla costruzione del patrimonio familiare.

È per tali ragioni che doveva concludersi per la revoca dell’assegno divorzile in favore della moglie.

 

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