L’evento morte provocato da un fatto illecito, ha sempre suscitato particolare attenzione per i cultori del diritto riguardando un bene, la vita, superiore e preminente rispetto ad ogni altro bene riconducibile alla persona umana, sia esso relativo alla salute piuttosto che all’onore, alla libertà piuttosto che alla sessualità e così via.

È noto come il tentativo di individuare, nella perdita della vita, un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, distinto dalle altre figure di tale pregiudizio e riconosciuto dalla famosa sentenza Scarano (dal nome del consigliere relatore che ne ha curato la motivazione – Cass. 23/01/2014 n° 1361), è stato in pratica arrestato dalle Sezioni Unite, con l’altrettanto nota pronuncia 22/07/2015 n° 15350, la quale ha affermato, a chiare note, come non sia lecito discutere della risarcibilità del c.d. danno tanatalogico, ossia di quel danno che la vittima subirebbe per la morte avvenuta immediatamente od entro un brevissimo lasso di tempo dall’evento lesivo e che, secondo Cass. 2014/1361, rileverebbe ex sé nella sua oggettività di perdita del principale bene dell’uomo, costituito, per l’appunto, dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia.

La qualcosa, secondo le SU 2015/15350, al contrario, non sarebbe concepibile, in assenza di un soggetto capace di essere centro di imputazione di un interesse risarcitorio (chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non essere più), in un sistema, come il nostro, in cui il risarcimento danni svolge una funzione riparatoria e non sanzionatoria (punitiva).

Le superiori premesse indicano come l’elemento temporale sia decisivo ai fini del riconoscimento e liquidazione del danno, conseguente al decesso della vittima, il quale, se avvenuto immediatamente o quasi non può essere risarcito, mentre, al contrario, se avvenuto entro una apprezzabile lasso di tempo. Il problema è definire il significato di detta terminologia, con la conseguenza che, in assenza di un preciso riferimento normativo specifico, l’interessato non può che affidarsi al  prudente apprezzamento del Giudice, ovviamente variabile da caso a caso.

È, dunque, alla casistica giurisprudenziale che occorrerà far riferimento, segnalandosi che normalmente si considera non risarcibile il c.d. danno tanatalogico avvenuto immediatamente, cioè a poche ore di distanza dall’evento lesivo od al massimo il giorno dopo, laddove, viceversa, si reputa ristorabile il pregiudizio (definito più propriamente danno biologico terminale, come tale trasferibile iure successionis) conseguente all’evento morte avvenuta in un tempo superiore.

Detto questo, c’è da chiedersi allora quale tutela è prevista nel nostro sistema per porre riparo a vicende in cui, a causa di una conclamata responsabilità per un fatto illecito altrui, una persona perde la vita nella immediatezza dell’evento lesivo, come molto spesso accade (e le cronache giornalistiche lo dimostrano), per fare solo un esempio, in quegli incidenti stradali in cui un pedone o anche un automobilista, nel caso di scontro tra veicoli, muore, per così dire, “sul colpo” o nell’autoambulanza durante il trasporto in ospedale, o appena ricoverato. Tutte circostanze che, verificatesi nell’immediatezza, escluderebbero quello che si è definito danno tanatalogico.

Facevamo queste riflessioni leggendo una sentenza del Tribunale di Rimini (09/02/2016 n° 205) che ha suscitato il nostro interesse per l’articolato ed argomentato incedere della precisa e pregevole motivazione, da cui abbiamo tratto lo spunto per la elaborazione del presente contributo.

Orbene, quid iuris nel caso in cui la morte sopraggiunga nella immediatezza dell’evento lesivo?

La vicenda esaminata dal  Tribunale di Rimini riguardava proprio una delle ipotesi suddette, considerato che gli eredi della vittima – una donna investita mentre attraversava la strada sulle strisce pedonali, la quale decedeva dopo appena tre ore dall’incidente, come era stato accertato dalla Polizia Stradale – avevano agito per il risarcimento del danno non patrimoniale prospettando l’esistenza del diritto sotto plurime voci.

Sulla base della vulgata giuridica prevalente, il Tribunale di Rimini escludeva che nella fattispecie esaminata gli eredi avessero diritto ad essere risarciti del danno da perdita della vita, in considerazione della morte della vittima intervenuta nella immediatezza dell’evento lesivo, appena tre ore dopo, che non aveva permesso allo stesso di entrare a far parte del “patrimonio” della donna deceduta e, quindi, di essere trasmesso ai suoi eredi.

Ma ciò non significava che fosse da escludersi anche il richiesto risarcimento del danno da sofferenza morale, per la cui configurabilità si prescinde dalla condizione temporale dell’avvenimento morte dovendosi svolgere il relativo scrutinio sulla base della esistenza o meno di una lucida e cosciente percezione, da parte del danneggiato, dell’imminente sopraggiungere della fine dei propri giorni.

Si parla, a tal proposito, per l’appunto, di danno da lucida agonia o catastrofale, termine con cui si allude “al danno morale puro subito dalla vittima che è consapevole della gravità delle sue condizioni ed attende lucidamente, benché atterrito, l’approssimarsi ineluttabile della morte” (così v. Cass. 19/06/2015 n° 12722).

Una distinzione netta tra danno catastrofale e tanatalogico è stata introdotta da Cass. 13/12/2012 n° 22896, secondo cui “il danno catastrofale va definito come il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte, nel lasso di tempo compreso tra l’evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita. Esso va distinto dal danno biologico terminale o tanatalogico, danno connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute”.

Per la configurabilità del danno catastrofale, come chiarito dalla più recente giurisprudenza di legittimità e fatta propria dal Tribunale di Rimini, non si tiene conto di quanto tempo il danneggiato ha vissuto dopo l’evento lesivo, ma di come ha vissuto nella preconizzazione dell’inevitabile evento catastrofico a suo danno.

Contrariamente ad una giurisprudenza più risalente, secondo cui nella fase terminale della sua vita le sofferenza morali  della vittima sarebbero ugualmente risarcibili anche in presenza di una condizione di incoscienza (v. Cass. 24/05/2001 n° 7075; Cass. 01/12/2003 n° 18305; Cass. 19/10/2007 n° 21976)  – in quanto sarebbe iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento di un danno morale e negarlo quando quelle stesse sofferenze, che lo sostanziano, non sarebbero possibili per lo stato di non lucidità della vittima – il più recente indirizzo giurisprudenziale sottolinea che deve considerarsi elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria de qua proprio quella condizione della vittima che si fa consistere nello assistere lucidamente alla perdita della propria vita.

Ed invero, come sottolineato dal Tribunale di Rimini, sarebbe contraddittoria l’affermazione “che da un lato configura (tradizionalmente) il pregiudizio in questione, in chiave  soggettivistica (quale sofferenza interiore, dolore psichico, turbamento dell’animo), e dall’altro lo reputa sussistente in capo ad un soggetto non in grado di percepire le conseguenze dell’evento dannoso”.

Così come posta l’affermazione ci sembra ineccepibile.

Dunque, per la configurabilità del danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofale, tutte espressioni che alludono alla condizioni di sofferenza percepita nella imminenza della conclusione dei propri giorni, occorre che la vittima, nel lasso di tempo, pur breve, tra l’evento lesivo ed il decesso, abbia maturato all’interno di esso la consapevolezza, il dolore, il timore per la fine che si avvicina (da ultimo Cass. 17/10/2016 n° 20915); in altro senso, occorre che la vittima abbia compreso, in una situazione di attesa lucida e disperata, l’approssimarsi dell’estinzione della vita (così Cass. 18/01/2011 n° 1072 e conformemente Cass. 13/01/2009 n° 458), il degrado della salute e l’imminenza della morte (Cass. 16/06/2009 n° 7724). Ma leggasi anche Cass. 19/06/2015 n° 12722 secondo cui “per il riconoscimento del c.d. danno catastrofale è necessario che la vittima, nell’apprezzabile lasso di tempo che ha preceduto la morte, si sia mantenuta lucida ed abbia così potuto percepire l’incombenza dell’inevitabile evento catastrofico a suo danno (nella specie è stata esclusa la risarcibilità del danno atteso che il tempo di sopravvivenza della vittima era stato di poco più di un ora e che soprattutto non vi era prova della sussistenza di uno stato di lucidità della vittima).

In conclusione, l’elemento e la prova della condizione di lucidità della vittima diventa decisivo ai fini del riconoscimento del danno catastrofale con la conseguenza, giusto il disposto dell’art. 2697 CC (secondo cui l’onere probatorio incumbit ei qui dicit), che la relativa domanda non potrà essere accolta in difetto della dimostrazione di tale condizione. E, ciò,  come ha fatto il Giudice riminese  ed altra giurisprudenza di merito  in esplicita adesione all’indirizzo interpretativo più recente di cui appena si è detto, citandosi, ex multis, il Tribunale do Grosseto 17/06/2016 n° 487,  il Tribunale di Isernia 04/01/2010, il Tribunale di Milano 16/06/2009 n° 7724, il Tribunale di Palermo 29/11/2006 n° 4736 (tutte in Redazione Giuffrè anni 2016, 2010, 2009, 2006).

Per la liquidazione del danno catastrofale, che è trasmissibile iure hereditatis, la Corte di Cassazione ha precisato (v. ex multis S.C. 31/10/2014 n° 23183) che essa deve affidarsi (a differenza di quella relativa al danno biologico terminale da effettuarsi sulla base delle tabelle relative alla invalidità) ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della enormità del pregiudizio giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (conforme Cass. 18/01/2011 n° 1072 e da ultimo Cass. 26/06/2015 n° 13198)

Avv. Antonio Arseni

Foro di Civitavecchia

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