La legge Balduzzi (L. n. 189/2012) è stata recentemente oggetto di due pronunce della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione che mirano a definire con maggiore accuratezza la rilevanza ed il ruolo delle linee guida e delle “best practices” nell’escludere la responsabilità, in caso di colpa lieve, dell’esercente la professione sanitaria che ad esse – purché accreditate dalla comunità scientifica – si sia attenuto.

Con la prima pronuncia n. 40708/2015, la Corte si è focalizzata sul chiarimento di come questi due “protocolli ufficiali” debbano venir introdotti nel processo e come vadano utilizzati dal Giudice.

La Corte di Cassazione ha sostanzialmente affermato che è onere del medico (allorché ritenga di essersi comportato nel rispetto dei suddetti protocolli) allegare le linee guida e le pratiche virtuose a cui si sia attenuto.

Allegare, inteso in senso tecnico, non presupporrebbe, nel caso di specie, materialmente produrre tramite deposito; basterebbe indicare gli estremi che consentano di identificare senza possibilità di errore i documenti in cui siano contenute le linee guida e le best practices a cui ci si riferisce; ovviamente la produzione è però da ritenersi in ogni caso preferibile. D’altro canto, la mera produzione di essi, senza che in alcun atto processuale vengano richiamati – e vengano richiamati per addurre la propria mancanza di responsabilità – non gioverebbe (in verità, i maggiori poteri d’ufficio del Giudice Penale permetterebbero di formulare l’ipotesi che questi “interpreti” la produzione come richiamo implicito: in tal modo, tuttavia, si svuoterebbe di senso la pronuncia in esame, che finirebbe col ribadire l’ovvia impossibilità di appellarsi all’art. 3 della Legge Balduzzi quando il medico non indichi, né produca le linee guida e le pratiche virtuose).

E’ questo atto – l’allegazione – che consente ai protocolli di entrare nel corpus dei mezzi di prova specifici al dato processo; l’acquisizione è prodromica, evidenzia la Corte, ad una doppia verifica; o sarebbe più corretto dire a due successive verifiche.

Dapprima, nell’iter logico, si situa il controllo della correttezza delle linee guida e delle best practices allegate, nonché quello circa il loro accreditamento presso la comunità scientifica (qui, francamente, la distinzione appare retorica: se esse sono accreditate, come potrebbero non essere corrette? E, viceversa, se non sono corrette, come potrebbero essere accreditate?).

Solo una volta che tale controllo abbia dato esito positivo, sarà possibile valutare se la condotta tenuta dal medico nel caso in esame sia stata effettivamente conforme ad esse e, se sì, escludere la responsabilità penale dell’imputato il cui comportamento pur presenti le caratteristiche della colpa lieve.

Si noti che, mentre la seconda verifica può e deve essere condotta dal Giudice, trattandosi della classica operazione giurisprudenziale di raffronto tra una prescrizione astratta (le enunciazioni delle linee guida e delle pratiche virtuose) ed una condotta concreta (il comportamento del medico), la prima pare ragionevolmente da affidare al C.T.U.

Senza intaccare il principio per cui resta il Giudice “peritus peritorum“, l’attestazione che le linee guida e le best practices allegate siano accreditate presso la comunità scientifica richiede una conoscenza tecnica la più ampia ed aggiornata possibile, quale solo al C.T.U. è ragionevole attribuire.

Dunque, la sequenza sarebbe la seguente: una volta allegate le linee guida e le pratiche virtuose da parte della difesa del medico, il Giudice dovrà nominare un C.T.U. che dica se esse sono o meno accreditate presso la comunità scientifica. Le tesi del C.T.U. potranno teoricamente poi essere ribaltate dal Giudice, certo (in questo senso egli è il “perito dei periti”), ma solo argomentando analiticamente le ragioni del dissenso. Sia come sia, unicamente allorché l’accettata consulenza (o, ipoteticamente, la diversa motivata conclusione del Giudice sul punto), confermi l’accreditamento, il Giudice potrà passare ad esaminare se la condotta dell’imputato sia con esse compatibile.

Va da sé che l’esito negativo della valutazione circa l’accreditamento comporterebbe una pronuncia di condanna, se non altro perché il medico avrebbe seguito protocolli non universalmente condivisi, e questo implicherebbe imprudenza (nel caso ad esempio di protocolli sperimentali) o negligenza (qualora si fosse attenuto, per mancato aggiornamento professionale, a protocolli superati).

Avv. Danilo Droghetti

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