Lesione nervo femorale destro con radicolopatia, denervazione di L4-L5 e problemi deambulatori (Cassazione civile, sez. III, 25/05/2023, n.14620).

La vicenda

La paziente citava a giudizio l’ASL deducendone la responsabilità professionale per gli esiti infausti dell’intervento chirurgico che le provocava la lesione del nervo femorale con problemi di deambulazione, insonnia e deprivazione dei rapporti sessuali.

Sia il Tribunale di Bologna che la Corte di Appello rigettavano la domanda.

In particolare, la Corte territoriale osservava:

  • a) era da escludere che “il mancato miglioramento del deficit neurologico potesse essere dipeso “da errori di tecnica operatoria ma piuttosto dalla sua patologia naturale”, per cui la dedotta “non utilità” dell’intervento chirurgico o il “mancato miglioramento delle pregresse condizioni fisiche del paziente” ovvero, ancora, “la mancata ripetizione”, prima di detto intervento, di “RMN9” non potevano, “in alcun modo, essere imputate ai sanitari della Ausl”;
  • b) la rottura di un peduncolo di L3 non era da addebitarsi ad un errore di tecnica operatoria, bensì a “complicanze nervose… in pazienti che hanno già subito precedenti trattamenti chirurgici nonché in casi in cui l’artrodesi comprende più di tre vertebre o debba comprendere anche il sacro”;
  • c) non vi erano “elementi clinici-documentali atti a dimostrare una lesione del nervo femorale causata dalla rottura del peduncolo e/o a malposizionamento della vite”;
  • d) l’assunto di parte attrice secondo cui il “danno neurologico acuto e diverso da quello preesistente” sarebbe stato conseguenza della “rottura della vite peduncolare” era confutato dai successivi rilievi strumentali (EMG), che evidenziavano elementi atti a confermare “la sussistenza di una radicolopatia cronica nella sede della lesione peduncolare (L3) e viceversa una progressione della neuropatia in L4, L5 e S1 compatibile con la storia naturale ingravescente della patologia vertebrale, scarsamente responsiva allora stessa terapia chirurgica”;
  • e) andava, quindi, affermata “la mancanza assoluta di nesso causale circa l’evenienza del preteso danno neurologico in conseguenza del trattamento chirurgico praticato”;
  • f) le osservazioni critiche alla CTU rispondevano “più ad una dialettica di prammatica che ad una censura ancorata ad un riscontro reale”.

Il ricorso in Cassazione

La decisione di secondo grado viene impugnata e la ricorrente si duole di condivisione acritica della CTU e motivazione apparente della decisione, omesso esame di un fatto decisivo e motivazione incomprensibile.

Secondo la tesi della ricorrente, i Giudici di appello si sarebbero limitati a condividere le argomentazioni del CTU, senza prendere in considerazione i rilievi del CTP, che evidenziavano gli errori commessi dal sanitario della ASL in ordine alla programmazione dell’intervento e alla sua esecuzione.

Le censure sono infondate e inammissibili

Le argomentazioni adottate dal Giudice di appello a giustificazione della decisione sono prive di contraddizioni e danno contezza delle censure dell’appellante e si soffermano anche sulle contestazioni alla CTU mosse dal consulente di parte, così da rendere evidente come la motivazione della sentenza, del tutto adeguata, non si risolva in una mera adesione acritica alle risultanze della Consulenza tecnica d’ufficio.

La Corte di Appello ha rigettato il gravame confermando la decisione di primo grado che, in relazione ai fatti allegati dall’attrice e sulla scorta delle risultanze della espletata CTU medico-legale, aveva accertato l’assenza di responsabilità civile della ASL convenuta per i danni lamentati in conseguenza dell’intervento chirurgico. La ricorrente, trattandosi di c.d. “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5 – per evitare l’inammissibilità del motivo, avrebbe dovuto indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello e, quindi, dimostrare che esse sono tra loro diverse, onere, questo, che non è stato assolto.

Inoltre, l’omesso esame decisivo che viene lamentato non attiene a fatti storici, bensì alle critiche alla CTU mosse dal consulente di parte attrice e alle carenze motivazionali della stessa CTU che, secondo la prospettazione della ricorrente, sarebbero poi rifluite nella motivazione della Corte territoriale.

Al riguardo la Suprema Corte ribadisce che il vizio specifico denunciabile come omesso esame di un fatto storico non include la Consulenza d’ufficio. La CTU è un atto processuale che svolge funzione di ausilio del Giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti, ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), fonte di prova per l’accertamento dei fatti. Si tratta, dunque, di un elemento istruttorio da cui è possibile trarre il fatto storico, rilevato e/o accertato dal Consulente.

La ricorrente lamenta incomprensibilità della decisione di appello

Infine, sulla incomprensibilità della decisione di appello, laddove, per un verso, ha ritenuto assorbito il motivo di gravame volto a censurare l’erronea applicazione dell’art. 153 c.p.c., e l’illegittima acquisizione “della indagine investigativa dell’AUSL” e, per altro verso, ha considerato quella indagine “utilizzabile… per la condanna della ricorrente al risarcimento del danno, ex art. 96 c.p.c., comma 3”.

La motivazione di secondo grado è del tutto comprensibile avendo il Collegio evidenziato che la documentazione fotografica prodotta dalla ASL, ed acquisita a seguito di rimessione in termini, non aveva alcuna rilevanza ai fini della decisione sulla domanda di danni proposta, riguardando soltanto la condanna della medesima attrice, in quanto soccombente, al pagamento di somma equitativamente determinata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

Conclusivamente, il ricorso viene integralmente rigettato con condanna alle spese.

Avv. Emanuela Foligno

Leggi anche:

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui