L’evento nascita di un bambino affetto da malformazioni o da malattie genetiche più o meno conosciute, non è purtroppo né raro né sorprendente. Almeno il 3% dei nati a termine da gravidanze apparentemente normali, presentano connotati di questo genere più o meno eclatanti e compatibili con condizioni di vita eterogeneamente “diverse”, le quali, in caso di sopravvivenza prolungata,  necessitano di cure ed assistenze costose e costanti.

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La diagnosi prenatale, tramite metodiche invasive (amniocentesi, prelievo dei villi coriali) e non (ecografia, esami biochimici, biologia molecolare, test di screening), raffinate nel tempo, consente di individuare diverse fra queste patologie e, sicuramente, la gran parte di quelle più gravi e grossolane.

L’abitudine a vivere in un paese tecnologicamente e culturalmente evoluto dal punto di vista medico scientifico ha fatto sì che, in Italia, eventi del genere siano via via sempre più rari e pertanto spesso opportunamente cavalcati al fine di stimolare clamore, qualora ve ne sia bisogno, intorno al mondo sanitario-assistenziale.

Questo accade ancora oggi, sebbene il nostro paese si sia imposto negli anni in termini decisamente avanguardistici, per quanto riguarda la diagnosi prenatale stessa e la diagnostica delle malformazioni fetali in utero. Fin dai primi sviluppi tecnologici (fine anni ‘70 – inizio anni ‘80) esistono, in Italia, centri di consolidata cultura scientifica apprezzati in tutto il mondo e personalità accademiche e non, riconosciute fra i maggiori esperti mondiali del settore.

Partendo da tali presupposti, ci sono società scientifiche nazionali, con grande seguito, che hanno emanato nel corso del tempo,  linee guida specifiche per l’utilizzo delle metodiche diagnostiche in gravidanza. Le conclusioni tecniche indicano che, ad oggi, vengono individuate nel corso della gravidanza ed in particolare, nei tempi fruibili per una sua interruzione ai sensi della legge 194 del 1978, circa il 50% delle anomalie, le quali scaturiscono, in larga parte, dal grande bacino di gravidanze identificate come a basso rischio per la problematica specifica. Certamente sono più confortanti i risultati per le gravidanze riconosciute come a rischio aumentato, le quali prevedono un iter diagnostico mirato in centri specializzati.

È’ drammatico, ma non sorprendente, che ai nostri giorni in una realtà sanitariamente evoluta, quale quella certamente rappresentata dalla regione Emilia Romagna, venga alla luce, senza alcuna diagnosi prenatale ecografica, un neonato affetto da una grave malformazione degli arti inferiori (assenza della porzione distale delle anche, di entrambe le gambe e dei piedi). Di sicuro tale terribile anomalia dello scheletro può e deve essere evidenziata nel corso della gravidanza utilizzando i test di screening disponibili per le gravidanze a basso rischio ai quali, ci si augura, sia stata sottoposta in sede opportuna, la mamma del bambino affetto da tale malformazione.

Altrettanto sicuramente, aggiungo che, esistono da quasi 20 anni, Linee Guida Nazionali le quali indicano come mandatorio lo studio ecografico dei quattro  arti fetali e di tutti i loro segmenti scheletrici (omero, ulna, radio per gli arti superiori – femore tibia e perone per gli arti interiori) con la valutazione delle estremità (mani e piedi) in termini di presenza assenza. Tale controllo si esegue di solito nel corso dell’ecografia di screening del secondo trimestre di gravidanza, peraltro  poco correttamente, indicata come ecografia morfologica, che viene opportunamente collocata intorno alle 20 settimana di gestazione, anche in relazione alla possibilità di applicazione concreta della legge 194.

È’ quindi evidente che, la mancata diagnosi nel caso di specie, sia da valutare in termini di assoluto fallimento, qualora utilizzato, del test di screening somministrato (nella circostanza l’ecografia). Ciò non identifica una mancata appropriatezza del test, ma certamente un suo utilizzo in termini ridotti e poco efficaci rispetto alle capacità diagnostiche dimostrate nel corso degli anni dalla suddetta  metodica.

È’ viceversa un grossolano errore indicare nel diabete gestazionale la motivazione dell’insorgenza della malformazione poiché è noto che,  tale patologia, in quanto indotta dalla gravidanza, non genera aumento di rischio malformativo fetale. Al contrario è altrettanto noto il rischio aumentato per malformazioni nelle donne diabetiche da prima dell’insorgenza della gravidanza (diabete mellito).

Questo rischio aumenta in termini significativi nei casi in cui il controllo della malattia sia poco efficace e cioè quando non si raggiunge prima della gravidanza o nelle prime fasi della stessa un controllo glicemico materno ottimale. Nel caso di specie, lo screzio diabetico poiché gestazionale, si è verificato nel corso della gravidanza  e a ad esso non può essere attribuita la patogenesi della malformazione scheletrica evidenziata.

Possiamo quindi concludere che l’esame ecografico di screening, qualora offerto alla Paziente per il monitoraggio della sua gravidanza a basso rischio per malformazioni fetali, sebbene idoneo allo scopo, non è stato efficace nel depistare il sospetto diagnostico o per confezionare  la diagnosi conclusiva di una grave malformazione scheletrica assolutamente eclatante ed invalidante.

Si cercano delle responsabilità che ovviamente cadono in testa a chi ha materialmente eseguito o omesso di eseguire l’esame e alla struttura presso la quale è stata dispensata la prestazione. Tanta la rabbia, altrettanto grande la sete giustizialista! Ma riguardando riviste e giornali dei tempi passati, peraltro senza andare molto lontano negli anni, è difficile trovare tanto spazio e tanta risonanza per problemi che purtroppo ci sono sempre stati. La nascita di bimbi con malformazioni ha sempre rappresentato per entrambi i genitori una grande paura, quasi sempre fortunatamente svanita al momento del parto.

Essa sta diventando nel tempo anche l’incubo di coloro che dedicano con diligenza la professione medica a questa particolare branca della medicina riproduttiva. Orbene è chiaro che in nessun caso l’operatore medico può indurre, attraverso la propria attività, l’insorgenza di una malformazione del feto, ma altrettanto chiaro è che, per quanti numeri eccellenti si possano raggiungere in termini di adeguatezza, sensibilità e specificità diagnostica, ci sarà sempre un “quid” che non consentirà di giungere alla identificazione del 100% delle malformazioni fetali, anche per le più eclatanti. Certamente e direi giustamente verrà accertata una responsabilità e quindi verrà stabilito un risarcimento più o meno adeguato.

Ma quale la ricaduta sulla sanità e sui suoi operatori. Richieste di cifre astronomiche di liquidazione del danno subito dopo processi decennali, generano aumenti costanti dei premi assicurativi che diventano proibitivi per tutti gli operatori del settore ed in particolare per i giovani specialisti,  i quali, alle prime armi, non guadagnano quanto necessario per far fronte alle sole spese assicurative. Peraltro la gran parte delle compagnie di assicurazioni hanno cessato il ramo infortunistico inerente l’ostetricia e la diagnosi prenatale, generando di fatto un “cartello” sinceramente insormontabile ed  inaccettabile.

Risultato finale il rischio elevato e la scarsa “convenienza” cui si associano una lunga serie di cecità istituzionali, sia di ordine assistenziale, che legislativo, che non ultimo didattico, portano i giovani specialisti ad abbandonare la ricerca ed il perfezionamento in tale settore, proiettandoci inevitabilmente verso un nuovo medioevo scientifico ed assistenziale del quale non possiamo essere che gli unici “consapevoli” e “corresponsabili” artefici.

Prof. Francesco Torcia
 Ginecologia e Ostetricia Dipartimento di Scienze-Mediche Chirurgiche
“Sapienza” Università di Roma
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