Il ragazzo, a causa di una disattenzione nell’effettuazione del test del DNA, aveva riconosciuto come padre biologico un uomo con cui non aveva alcun legame sanguigno

Per anni ha erroneamente considerato come padre biologico un uomo con il quale non aveva in realtà alcun legame di sangue. Alla base dell’equivoco una disattenzione compiuta dal medico che effettuò il test del Dna in occasione della procedura di “riconoscimento di paternità”.

Solo un secondo esame genetico effettuato a distanza di due anni ha fatto emergere la verità. Di qui la richiesta di risarcimento avanzata dalla madre nei confronti del camice bianco e della struttura sanitaria presso cui prestava servizio.

Una domanda che ha trovato accoglimento in via definitiva dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 20835/2018. Gli Ermellini hanno aderito alle decisioni dei Giudici del merito ritenendo legittima la pretesa della donna. Evidenti, infatti, le ripercussioni negative provocate dalla disattenzione del professionista nell’effettuazione del test.

In primo grado il Tribunale aveva fissato un risarcimento pari a 36.808 euro per danno non patrimoniale da lesione di integrità psico-fisica nella misura dell’11% per il minore e del 5% per la madre. In sede di appello la cifra era salita a 47mila euro. Nonostante ciò, però, la madre del ragazzo aveva deciso di rivolgersi alla Suprema Corte.

La ricorrente, in particolare, chiedeva il riconoscimento del ‘danno subito dal figlio’, costituito dalla brusca ‘perdita del rapporto parentale’ all’esito del secondo esame.

I Giudici del Palazzaccio, nel pronunciarsi sulla vicenda, hanno escluso l’aumento della cifra fissata in sede di Appello. Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, hanno specificato che il danno lamentato era già compreso nei 47mila euro.

Secondo la Cassazione, in particolare, “il danno conseguente alla lesione del rapporto parentale (e non soltanto alla sua perdita) deve essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva”. Ciò indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto con cui non sussiste alcuna consanguineità naturale. E’ sufficiente che quest’ultimo “abbia con la persona danneggiata analoga relazione di affetto, di consuetudine di vita e di abitudini”. E “che infonda nella persona danneggiata quel sentimento di protezione e di sicurezza insito nel rapporto padre-figlio”.

 

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