Torna a far discutere il tema della responsabilità sanitaria per danni arrecati al paziente, questa volta con riferimento all’ipotesi di cure dentarie.
È principio ormai noto che la responsabilità del medico è responsabilità contrattuale.
Nelle fattispecie, sono criteri funzionali all’accertamento della colpa medica (in astratto) quelli: a) della natura, facile o non facile, dell’intervento medico; b) il peggioramento o meno delle condizioni del paziente; c) la valutazione del grado di colpa di volta in volta richiesto: lieve, nonché presunta, in presenza di operazione routinarie; grave, sia pur sotto il solo profilo della sola imperizia (Corte cost. 166/1973), se relativa ad interventi che trascendano la ordinaria preparazione media ovvero non risultino sufficientemente studiati o sperimentati, salvo l’ulteriore limite della particolare diligenza e dell’elevato tasso di specializzazione richiesti in tal caso al professionista; d) il corretto adempimento tanto dell’onere di informazione – con conseguente consenso del paziente -, quanto dei successivi obblighi “di protezione” del paziente stesso attraverso il successivo controllo degli effetti dell’intervento.
In particolare, con la storica sentenza, n. 577/2008, le Sezioni Unite della Cassazione, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, avevano enunciato il principio secondo cui il paziente che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento dello stesso, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.
In altre parole, il danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria è tenuto a provare unicamente il contratto stipulato con il professionista ed allegare l’inadempimento di quest’ultimo che consiste nell’aggravamento della patologia o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento medesimo, restando invece, a carico del secondo, la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.
Per quanto riguarda, invece, la prova del nesso casuale tra il danno e la condotta medica, la giurisprudenza negli ultimi anni è rimasta pressocchè ondivaga, anche se sostanzialmente tale incombente è stato il più delle volte addossato in capo al paziente: «in tema di responsabilità per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, inquadrabile nella responsabilità contrattuale, è a carico del danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie), nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile» Cass. 975/2009).
Ma con la sentenza odierna la Cassazione (Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 11 febbraio – 30 agosto 2016,n. 17405) ribalta totalmente questo principio affermando che non spetta al danneggiato l’onere di provare l’esistenza d’un nesso di causa tra il danno e l’opera del sanitario aggiungendo tuttavia, che ai fini dell’accertamento di tale responsabilità assume particolare rilievo la valutazione delle pregresse condizioni del paziente nonché la condotta dello stesso, fino ad escludere ogni particolare ipotesi di colpevolezza in capo al sanitario.
Nel caso di specie, l’attore aveva convenuto in giudizio il proprio medico odontoiatra, “accusandolo” di aver malamente eseguito le cure dentarie oggetto del contratto di prestazione d’opera professionale con essi stipulato.
Ebbene a causa di tali errori medici, questi era stato costretto a dover ricominciare daccapo l’intera cura. Per tali ragioni, chiedeva la risoluzione del contratto, la restituzione del corrispettivo e la condanna del convenuto al risarcimento dei danni.
Il primo e il secondo grado di giudizio si concludevano con il rigetto della domanda, non essendo stato ritenuto sussistente un valido nesso di causa tra l’opera del medico convenuto e gli inconvenienti lamentati. Stessa sorte in Cassazione.
I giudici ermellini, pure ribadendo il principio secondo il quale, non spetta al paziente l’onere di provare il nesso eziologico tra il danno e l’opera del medico, avevano dovuto prendere atto che i giudici dell’appello con autonoma motivazione avevano affermato in facto, che la causa del fallimento delle cure eseguite dal convenuto non andasse ricercata nell’opera di questi, ma in fattori naturali (malocclusione) o nella condotta dello stesso patente; soggiungendo, per di più, che in ogni caso, l’opera del professionista era avvenuta nel rispetto della diligenza prescritta dalle leges artis.

Avv. Sabrina Caporale

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